La vita, l’uomo, la relazione
Opera del demonio, reperti naturalistici, curiosità etniche o veri e propri capolavori? Così sono state considerate di volta in volta, in occidente, le opere dell’arte africana tradizionale, identificata per lo più con la scultura dell’Africa Nera (cioè di quella parte del continente che si estende a sud del Sahara, dove la forma d’arte figurativa più diffusa è appunto la scultura). Ancora oggi c’è chi parla in proposito di arte “primitiva”, sia pure affascinante: un’eredità, questa, della cultura ottocentesca di stampo evoluzionista, che aveva relegato alla base della piramide evolutiva sociale le popolazioni subsahariane e, come conseguenza, negato loro ogni capacità creativa in quel campo. A sfatare questo luogo comune, mostrando quanto gli artisti neri abbiano saputo elaborare, con un loro specifico linguaggio, opere di altissima qualità, giunge opportuna la grande mostra in corso a Bologna. Idealmente dedicata al premio Nobel Léopold Sédar Sénghor, il “poeta della negritudine” recentemente scomparso, Africa Nera ruota intorno alla straordinaria raccolta messa insieme da Ezio Bassani, un ex dirigente d’azienda di Varese divenuto uno dei maggiori esperti a livello mondiale di arte africana; collezione destinata ad arricchire il futuro museo milanese delle culture extraeuropee. Si tratta di 83 sculture di artisti per lo più anonimi, appartenenti ai più importanti gruppi etnici della regione che va dall’Africa Occidentale all’Angola: esemplari g e n e r a l – mente in legno, la cui lavorazione senza disegni preparatori né abbozzi è frutto di una eccezionale maestria tecnica unita ad una perfetta capacità di immaginare l’opera finita. Rappresentano in prevalenza figure umane, antenati o divinità tutelari, come pure maschere, sia di uomini che di animali. Ve ne sono di inquietanti, che assommano in sé ambedue i tratti, eredità di tempi remoti in cui l’uomo viveva in stretto contatto con la natura; altre severe e misteriose, che richiedono uno sforzo di decifrazione; e altre ancora che appagano anche soltanto per l’eleganza e l’estrema raffinatezza. Da tante emana una luce, un senso di compostezza e di regale nobiltà, oltre che di grande energia e monumentalità, pur nelle dimensioni ridotte. Valga per tutte prima la maschera a pag. 60, appartenente ad una delle società iniziatiche bambara (Mali). Tra le più astratte e perfette conosciute, rivela la mano di un grande scultore che ha saputo esprimere con incredibile economia di mezzi il passaggio dell’uomo dall’animalità (rappresentata qui da un volto con tratti scimmieschi) alla saggezza. Inevitabile il riferimento a Picasso e agli artisti della Scuola di Parigi; senonché le somiglianze si limitano alle soluzioni plastiche: tra quelle opere e questa maschera – indossata in occasione di danze propiziatorie dal significato religioso – c’è un abisso. Questo oggetto può essere compreso solo all’interno di una cultura che pone al centro la vita, l’uomo, la relazione con la divinità e gli esseri creati: anche se è fuori luogo il parallelo con le nostre immagini religiose. Tali sculture, infatti – secondo Ezio Bassani – “non rappresentano il sacro, sono il sacro. La figura dell’antenato non è l’immagine dell’antenato ma è l’antenato, assurto a tramite tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Allo stesso modo, la maschera non evoca lo spirito ma, durante la danza, è lo spirito con tutte le sue potenzialità benefiche e malefiche, è, cioè, il mezzo che trasforma il reale in soprannaturale”. Un tratto originale della mostra bolognese è che, partendo dalla collezione Bassani, s’allarga ad illustrare non tanto l’ormai assodata influenza dell’arte africana su quella occidentale tra Ottocento e Novecento, quanto invece le suggestioni esercitate in Europa già in precedenza, all’epoca delle prime esplorazioni delle coste africane; come pure quanto abbiano inciso su alcune espressioni artistiche del continente nero le esigenze della clientela europea. Di queste ultime si ammirano alcuni esempi stupefacenti, tutti provenienti da raccolte emiliane e romagnole, a testimoniare un gusto collezionistico per l’esotico che aveva preso piede fin dai primi del Cinquecento: dai manufatti in avorio come saliere, cucchiai, forchette, impugnature di coltelli e olifanti; ai tessuti di filo di palma provenienti dall’antico regno del Congo, molto apprezzati per la bellezza della decorazione geometrica. Completa il percorso un unicum: 33 disegni eseguiti con felice vena popolaresca dal cappuccino padre Giovanni Antonio Cavazzi da Montecuccolo (Modena), missionario in Congo e in Angola per circa un ventennio tra il 1654 e il 1677; disegni in cui è stata riconosciuta la prima testimonianza figurativa su un paese dell’Africa Nera e sui suoi abitanti realizzata sul posto da un europeo. La loro sequenza, ripresa elettronicamente per consentirne un’agevole visione, viene proposta nella mostra insieme all’illustrazione di manufatti raccolti in epoca recente nella regione, a riprova della fedeltà alla realtà africana dei disegni stessi.