La vita in uno sguardo

L’incontro col male non riesce ad annientare la persona. Lo “gridano” le foto segnaletiche delle vittime del Grande Terrore staliniano.
Dmitrij Voroncov

Ho visitato al Palazzo delle Esposizioni la mostra romana di un maestro della fotografia “di studio”: Arturo Ghergo, fotografie 1930-1959, periodo nel quale questo artista originario di Montefano, in provincia di Macerata, è stato il ritrattista più ambito della capitale, conteso da divi del cinema, personaggi della politica, della cultura e, soprattutto, dell’alta società. Oltre 250 scatti, in cui le pose accuratamente studiate, le luci e i ritocchi successivi miravano a trasformare i soggetti in vere icone aureolate di fascino e mistero, quasi di una sovrumana perfezione. Il culto della bellezza: ecco cosa caratterizza l’arte di Ghergo, noto per costringere i suoi modelli a sedute così spossanti sotto la luce dei riflettori da perdere a volte i sensi.
Erano, a sentir lui, i momenti migliori, nei quali, privi quasi di volontà, essi si piegavano del tutto docili a quella del fotografo.

A di là dell’apparenza sofisticata, m’interessava l’umanità dei soggetti; e in qualche modo m’è riuscito di percepirla. Come quando, con emozione, ho riconosciuto in una celebre diva nel suo massimo fulgore l’anziana incontrata negli anni della decadenza e della miseria.

Immagini levigate che, per contrasto, mi sono tornate in mente poche ore dopo, mentre sfogliavo La vita in uno sguardo.
Questo documento sconvolgente, edito da Lindau,  riporta le foto segnaletiche di oltre duecento vittime del Grande Terrore staliniano, scelte tra le 20.765 che, tra l’agosto 1937 e l’ottobre 1938, furono accusate dei più inverosimili delitti: spionaggio, terrorismo, trame controrivoluzionarie. Ed erano semplici cittadini – insegnanti, casalinghe, operai, sacerdoti, perfino innocui accattoni – che nel giro di pochi giorni si videro arrestare e, senza processo, condannare alla fucilazione. Prima però furono sistematicamente fotografati.
Molti di loro vennero seppelliti in fosse comuni a Butovo, alla periferia sud di Mosca, ma solo dopo la caduta del regime, al termine di ostinate ricerche, è stato possibile ritracciare questo luogo di morte, i fascicoli giudiziari e le foto segnaletiche.
E proprio grazie a quegli scatti di nessuna pretesa artistica, oggi possiamo guardare negli occhi queste vittime del totalitarismo ridotte a numeri, leggere i diversi sentimenti che agitavano il loro animo negli ultimi momenti, quasi ascoltarne il grido silenzioso di fronte ad una condanna senza colpa e senza senso.

Ciò che impressiona è che sono volti di persone comuni, del tutto simili a quelle che incontriamo per strada o in metro, volti che «ci ricordano che erano esseri umani come noi, con le nostre fragilità e le nostre paure», afferma Lucetta Scaraffia, curatrice del volume insieme a Marta Dell’Asta. A differenza degli esseri superiori e trasfigurati di Ghergo, questi uomini e donne di cui si sa a volte solo nome, luogo e data di nascita, vanno contemplati nella loro umanità sofferente come altrettanti Ecce Homo. Non solo: le foto raccolte «sono la testimonianza di uno scambio di sguardi fra due esseri che il totalitarismo vuole depersonalizzare. Ma se questo processo di depersonalizzazione è riuscito, forse, per i collaboratori della polizia politica, non riesce con le loro vittime. Ce lo rivelano i loro occhi, il loro modo di stare davanti alla macchina fotografica, le modalità sempre diverse con cui affrontano l’incontro col male.

Ciascuna delle persone fotografate ha mantenuto la propria dignità, e in un certo senso in quell’ultimo sguardo ha raccontato tutta la sua storia. Una storia carica di dolore, ma la storia pur sempre di un essere umano, e non di un numero, non di un “nemico”».

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