La vita dei cristiani
Che cosa sono le nostre comunità? Che cosa sono nel nostro tempo, nella distretta del nostro tempo? Quando si apre, oggi, il testo bonhoefferiano della Vita comune dei cristiani, a distanza di oltre settant’anni dalla sua stesura, non si può fare a meno di porsi questa domanda. Poiché le pagine del teologo di Breslavia si rivelano, come spesso accade, profetiche, quasi “inaudite”.
La domanda di partenza è, da subito, pressante; e non può far altro che obbligarci a indagare su una questione che ci deve necessariamente inquietare: perché queste pagine sulla “vita in comune dei cristiani” sembrano oggi “udite per la prima volta”? Che cosa è stato dimenticato in questi settant’anni? Che cosa è mutato dal tempo in cui Bonhoeffer le scrisse, così che le scordassimo, e che cosa è rimasto tanto identico da farcele sentire necessarie, d’improvviso, per una rinnovata riflessione sulla Chiesa, che è – questo sappiamo, questo dimentichiamo –, nella sua essenza, comunità e comunione?
Una semplice riflessione potrebbe anche bastarci, essendo incontestabile: quanto Bonhoeffer intuiva alle soglie del secondo scontro bellico mondiale, si è lentamente realizzato negli anni della guerra e, soprattutto, si è confermato in quelli della pace, in cui si è costruito ciò che siamo. Le sue provocatorie affermazioni – semplifichiamo: «dobbiamo vivere secondo Dio, in un mondo che è senza Dio» e «vivere nel mondo come se Dio non fosse» – si sono realizzate in questo quotidiano cui ci è toccato esistere; e, poiché l’uomo si abitua a ciò che vive, per lungo tempo abbiamo perso la memoria del loro senso profondo: vivere nel mondo senza Dio, di fronte a Dio, come se Dio non fosse (etsi Deus non daretur), è infatti oggi l’habitus quotidiano del credente cristiano. Il cristianesimo è oggi, in Occidente, in condizione di minoranza, è frantumato, parcellizzato. Osiamo dire: è cristianesimo, ormai, di diaspora. Perché ciò stia accadendo e quali siano le prospettive per il futuro prossimo, lo lasciamo a chi è più esperto di noi in sociologia cristiana. Qui, introducendo uno dei testi più profondi, sofferti e vissuti della teologia bonhoefferiana (ben oltre le apparenze), non ci importa quel che è stato o quello che sarà, ma quel che è e che abbiamo annunciato: la situazione del credente cristiano in un mondo non più cristiano; la serietà della comunione (spirituale e non semplicemente psicologica) che si può ancora dare (e che si deve dare) tra i credenti cristiani in questo mondo. Poiché la comunione nella condivisione del Vangelo, ci ricorda Bonhoeffer, è il caso serio dei suoi e nostri giorni.
Una delle prospettive che il teologo di Breslavia ebbe sempre presente, al centro della propria esperienza di fede, fu certamente la consapevolezza lucida e onesta del mondo in cui si trovava a esistere. La coniugazione tra “meditazione del Vangelo” e “risposta concreta alle pretese mondane della storia” fu una delle caratteristiche della sua teologia e della stessa sua vita: se il Vangelo provoca il cristiano che vive nel mondo, è pure vero che il mondo obbliga a comprendere il Vangelo in maniera concreta sempre, e rinnovata: il mondo obbliga il credente a fare i conti con il fatto che non si è ancora in Cielo. La nostra vita si gioca sulla terra, e se il tema evangelico può anche essere chiaro, la sua modulazione quotidiana cambia a seconda della domanda mondana. Fu proprio per essere fedele a questo criterio che Bonhoeffer mise mano alle pagine presentate in questo libro e che, nel concreto, raccoglievano le riflessioni elaborate durante l’esperienza fecondissima della sua guida del Seminario pastorale di Finkenwalde (1935-1937).
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La “teoria” della comunione cristiana che Bonhoeffer descrive nelle pagine de La vita comunitaria dei cristiani non è, di conseguenza, figlia di un astratto pensiero, ma di una scelta ben incarnata e che, proprio dall’incarnazione, in un tempo e in un mondo precisi, deduce i propri riferimenti. Nonostante questo, il lettore del testo bonhoefferiano non troverà mai, in queste pagine, neppure un solo accenno alla questione politica degli anni prebellici: quando decise di mettere per iscritto i criteri derivati dall’esperienza comunitaria che aveva vissuto, Dietrich Bonhoeffer lo fece non per raccontare un momento di resistenza cristiana nei confronti del nazismo, ma per fornire riflessioni che potessero provocare tout court l’autocoscienza della Riforma e della Chiesa tutta. L’occasione della “resistenza” a Hitler doveva, nel suo pensiero, diventare criterio per una riflessione cristiana a tutto tondo sulla vita del credente, che non doveva più permettersi di scordare tre elementi per sé decisivi:
1. la vita di chi crede è una vita che non ha altro centro che Cristo; 2. la vita di chi crede non può che essere in comunione con gli altri credenti; 3. la vita di chi crede deve sapere che i due punti precedenti si esplicitano in relazione e dentro un mondo che non crede.
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Possiamo, a questo punto, tornare alla nostra domanda di partenza, per concederci una semplice risposta: ripubblicare oggi le pagine de La vita comunitaria dei cristiani trova nelle stesse parole (possiamo dire profetiche?) di Bonhoeffer il suo vero senso. Oggi come non mai la comunitarietà della Chiesa è messa in crisi: non solo per una questione numerica, come pure abbiamo accennato (si parla sempre di più di cristianesimo di minoranza), ma anche perché sono in crisi gli elementi fondanti della comunione stessa. Non vi è più un “sentire comune”, che si esprima attraverso la partecipazione alla liturgia “di popolo” e/o attraverso la condivisione dei fondamenti della fede stessa (per non parlare di quelli della morale). Fino a che la società civile condivideva con quella ecclesiale i propri fondamenti e non proponeva alternative, la fede, la morale e le loro conseguenze potevano apparire scontate. Oggi non lo sono più: i valori civili e sociali (esattamente come al tempo di Bonhoeffer, benché per diverse ragioni) non sono “evangelici”; la cultura diffusa non ha più alcuna preminenza cristiana; le occasioni di ritrovo sono moltiplicate e “andare in Chiesa” è conseguenza di una precisa scelta, non essendo più l’“unica opportunità”; il personalismo (che spesso sconfina nel narcisismo) con cui percepiamo il valore della nostra singolarità non favorisce l’accettazione di relazioni in cui non sia centrale l’ego. Tutto spinge a una percezione della comunione e della comunità cristiana come “laterale” al vivere: si può stare benissimo senza Chiesa, più volte è stato detto. La stessa famiglia, tanto invocata quale fondamento della società e della vita credente, è raramente esperienza “cristiana”.
Ora, proprio questa nuova quotidianità condivisa, che rende tutti i credenti, in vario modo, in diaspora, è proprio ciò che rende attualissime le pagine bonhoefferiane. La proposta del martire di Flossenbürg diviene allora un pungolo penetrante, che ci impone di riflettere da capo e in modo nuovo su una serie di questioni che ci sembrava di poter dare per scontate: sul senso della preghiera comune quotidiana (anche e soprattutto in famiglia); sulla pretesa di relazioni non psichiche ma pneumatiche; sulla necessità di riferirsi a Cristo e non a noi stessi come criterio unico delle relazioni; sul bisogno di condividere le parole del Vangelo per non sentirci soli nel mondo; sull’accoglienza del perdono (e della confessione del peccato) come conseguenza dell’accettazione del fatto che siamo fragili e non possiamo salvarci da soli.
Detto questo, si comprende anche perché le pagine bonhoefferiane, così profondamente incarnate nel protestantesimo evangelico, appaiano nel contempo sorprendentemente cattoliche, quando le si affronti senza pregiudizio (si vedano in modo particolare quelle conclusive, sulla confessione): semplicemente perché sono pagine che hanno una sola volontà, quella di mettere Cristo al centro, senza orpelli, senza paure.
L’augurio per il lettore e i lettori è dunque quello di riscoprire la bellezza del lavoro comune, la ricchezza che viene dall’ascolto dell’altro che ci parla di Dio, la condivisione della nostra personale parola su Dio. Quando cerchiamo, da cristiani, la comunione, infatti, non facciamo altro che realizzare il Vangelo: buona notizia che si dà sempre «dove due o tre sono riuniti nel suo nome».
Da La vita comunitaria dei cristiani di D. Bonhoeffer (Città Nuova, 2015)