La vita come arcipelago

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Poeta caraibico e insieme universale, Derek Walcott è non solo la dimostrazione della parola di John Donne – tutto ben presente alla nella sua poesia – Nessun uomo è un’isola, ma anche il suo capovolgimento, deflagrazione e insieme unificazione. Come le sue Indie occidentali, è culturalmente e poeticamente crocevia, urto e sviluppo in infinita eco di mille acque e terre di popoli e lingue e nazioni e diaspore: Io sono solamente un negro rosso che ama il mare, / ho… avuto una buona istruzione coloniale, / ho in me dell’olandese, del negro e dell’inglese, / sono nessuno, o sono una nazione. Nazione, beninteso, nel senso che nessun uomo è un’isola (la sua, Saint Lucia) ma la parte di un tutto composito che si rovescia, unificandosi, nel tutto composito di cui quella parte è nessuno. Il nessuno trova la sua identità/unità con i tutti nel cuore della poesia, che è la lingua, il suo inglese (angloamericano, a volte sapientemente mescidato di patois creolo) divenuto mare di comunicazione, oceano omerico di vicissitudine, forma e rapporto, tendenzialmente epico, tra tante diversità laceranti e convergenti. L’arcipelago periferico di quelle credute indie, cinque volte più grande di quello greco, è solo apparentemente un margine, una periferia continentale, nota il poeta Iosip Brodskij, Nobe1 anche lui come Walcott, che perentoriamente trova il bandolo della matassa: La periferia non è il luogo in cui finisce il mondo – è proprio il luogo in cui il mondo si decanta . Là infatti Wa1cott, con la sua dichiarazione di nessuno-tutti, si fa cantore di un oceano umano ben più impressionante e infinito di quello acqueo, e su di esso migrante in ogni direzione, e ascoltando quella lingua inglese mescidata e accogliente come Omero ascoltava la sua Musa, affina, dice Brodskij, una sensibilità che di per sé è storia, e che si rende risposta semantica all’insensata e traboccante realtà. Non si potrebbe dire meglio, e meglio immergersi in lui che con queste parole: queste poesie rappresentano una fusione di due versioni dell’infinito: il linguaggio e l’oceano.(…) Questo poeta, senza dubbio è stato fortunato a nascere in questa periferia, in questo crocevia dell’inglese e dell’Atlantico, dove l’uno e l’altro arrivano a ondate solo per poi ripiegare. E ha ancora ragione il poeta russo a sottolineare decisamente che l’atto di conferire a un luogo lo status di realtà lirica comporta più immaginazione e più generosità che non l’atto di scoprire o sfruttare qualcosa che era già, creato. Walcott, inoltre, evidentemente incarna in sé l’auspicio migliore, di unità nelle diversità, cioè di armonia delle differenze, con cui tramonta il XX e inizia il XXI secolo, in bilico tra accoglienza e rifiuto perché ancora ignaro, il nuovo secolo, di essere esso stesso ignoto e straniero, bisognoso per primo di accoglienza e di identificazione della pluralità, ben più che di generica e infida tolleranza. L’onda della marea dei rifugiati, non un semplice passo di oche / selvatiche (…) la macchia scura / che passa le frontiere sulle carte geografiche e ne dissolve le forme, ecco la mappa del mondo che viene e la radiografia poetica di Walcott stesso. Ed ecco il suo fermento lirico e la sua tensione neoepica, entrambe insopprimibili e continuamente destinate a uno scacco, un’incompiutezza che è quella stessa dei tempi, e che firma la vera onestà letteraria e culturale di questo cantore, si potrebbe dire, dalla grandiosità minimale delle vite più umili e più esposte alla risacca della storia. La lirica che trascolora in epica, l’epica che si infrange sugli scogli delle incompiutezze della storia, emergenti come scogli ma anche come ponti verso ignoti approdi. E il mare che tutto divide e tutto, nella sua liquida unione, rende possibile e comunicabile. È proprio questo il tentativoscommessa del poema Omeros (1990), ora tradotto e annotato da Andrea Malesini per Adelphi, con testo a fronte; e bisogna pur dire che si tratta di un onorevole fallimento. Tentativo impossibile, quello che Walcott fa di coniugare il poema con il romanzo, la contemplazione con il referto narrativo; sia nell’intreccio tematico delle vicende umane con il mare che non ha mai variato il metro per adeguarsi / al gusto del tempo, è una pagina immensa, senza metafore , ed è l’ultima risorsa, per noi come per te, Omeros, sia nella peripezia romanzesca dei nuovi Ettore e Achille, il pescatore e l’ex pescatore innamorati della stessa donna, nuova Elena naturalmente, nella prosa quotidiana del lavoro e del turismo esotico. Densa di metafore e invenzioni linguistiche, tra l’aulico e il popolare, l’inglese e il patois locale, qui la poesia di Walcott tenta la grande prosa al confine con l’epica mettendo a frutto Conrad e Kipling e Hemingway ma rischiando continuamente, nella densità espressiva, dice Malesini, la concentrazione del sonetto, e non l’estensione epica. I grandi pensatori recenti, da Hegel a Benjamin, si sono arresi con lucida intransigenza all’impossibilità dell’epos nel mondo moderno (e lo stesso Ulysses di Joyce è epos rovesciato dall’ironia): perché manca, in una realtà già ordinata a prosa, la condizione del mondo originariamente poetica da cui si origina l’epos vero e proprio (Hegel), e perché il romanzo rappresenta invece l’individuo nella sua solitudine (Benjamin citato da Malesini). Walcott, con il suo volutamente rozzo esametro e la sua larga e irregolare terzina dantesca, va alla ricerca della sacralità epica sul binario del racconto romanzesco, ottenendo non l’una e non l’altra, ma guizzi, lampi lirici e descrizioni cocenti di particolari di vita e morte, di passato e presente dell’arcipelago culturale caraibico; e una riflessione senza fondo sull’illusione dell’io e dunque del tempo, delle passioni e delle azioni, al confronto con l’inesauribile respiro e approdo del mare. Ma questa è malinconia, meditazione di un vero poeta che realmente giunge a rappresentare la dissonanza tra natura e cultura nella storia dell’uomo contemporaneo.

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