La virtù “modesta” della democrazia di Michele Nicoletti
«Benché nel nostro Paese il concetto di accountability sia entrato nel lessico politico corrente in anni piuttosto recenti, esso nasconde un problema antico: come evitare che il potere che diamo ad altri di agire in nostro nome – come accade ad esempio ai rappresentanti eletti dal popolo – venga esercitato in modo sfuggente, opaco, arbitrario, senza cioè la possibilità di un indirizzo, di un controllo, di una verifica da parte di chi lo ha conferito e senza la necessità di una puntuale e costante rendicontazione da parte di chi lo ha ricevuto.
Sembra infatti appartenere alla natura del potere politico questo strano paradosso: il potere nasce dalla relazione ma sembra sfuggire alla relazione.
Benché a un primo sguardo il potere politico possa apparire come un attributo di un singolo o di un gruppo in sé considerato, esso invece scaturisce da una relazione. Non deriva dal semplice possesso di determinate cose, quali la forza fisica o militare, la terra o il denaro, l’uso della parola o di altri strumenti di comunicazione, che pure costituiscono elementi fondamentali del suo esercizio. Ma scaturisce da una relazione tra gli esseri umani.
Il potere politico è un potere relazionale.
Lo è certamente per quanti lo intendono come scaturente da una “relazione orizzontale”, ossia come potere di “agire di concerto”, secondo la bella espressione di Hannah Arendt, come capacità di agire insieme, di “con-sentire” e “co-operare” secondo quella tradizione aristotelica che concepisce la politica come legata al fatto della pluralità degli animali razionali sociali, di individui che si vogliono liberi e si riconoscono pari, e che mettono in comune il loro bisogno di sopravvivenza materiale, la loro esigenza di difesa, la loro convinzione attorno a ciò che è giusto.
Ma anche per quanti pongono al centro della politica una “relazione verticale”, quale quella tra “protezione e obbedienza” o “comando e obbedienza” secondo le espressioni di Hobbes o di Carl Schmitt, il potere scaturisce da una relazione. Perché il comando incontri obbedienza non basta la mera forza di coercizione: la violenza o la conquista piegano certo la volontà altrui ma solo là dove non trovano un diniego, una resistenza, un atto di opposizione. È vero: resistere alla conquista può voler dire dover morire ed è piuttosto raro imbattersi in chi ha questo coraggio. Ma bastano pochi casi di resistenti ai regimi più violenti per dimostrare che il potere, anche nella sua forma più brutale, è nullo senza il riconoscimento di chi lo subisce. Lo dice con chiarezza Hobbes laddove riconosce che anche lo Stato di conquista si fonda in ultima analisi su di un atto di accettazione. Lo riconosce con profondità Gandhi là dove ci ricorda che anche il potere di un tiranno scaturisce dai tanti che si piegano al suo volere: se i tanti si rifiutassero di obbedire al tiranno – magari al prezzo della vita – il suo potere alla fine si dissolverebbe.
Come ci ha insegnato Max Weber il potere politico è un comando che si attende di trovare obbedienza, perché chi obbedisce lo riconosce, insomma “crede” nella sua legittimità. Dunque anche il potere di chi comanda affonda in una relazione, nella relazione con chi ubbidisce. Insomma la genesi del potere politico è umana. Siamo noi uomini, sempre, che diamo ad altri quella forma particolare di potere che è il potere di comandare ad altri uomini. Gli uomini non hanno altro modo di aumentare il loro potere se non quello di associare al proprio il potere altrui: si può associare con il consenso dell’altro, o si può strappare all’altro il suo potere, facendo dell’altro uno strumento del mio desiderio di potenza, di ricchezza o di piacere. In fondo la democrazia altro non è che un perenne sforzo di democratizzazione del potere politico. Ciò vuol dire combattere contro la riduzione dell’umano a mera cosa, a strumento nelle mani dell’altro uomo, attraverso il riconoscimento del fatto che ciascun individuo è originariamente libero e portatore di un uguale potere nei confronti dell’altro e che ogni potere dell’uomo sull’uomo può fondarsi solo sulla messa in salvo dell’umano.
Eppure, nonostante questa sua genesi “dalle” e “nelle” relazioni umane, il potere politico sembra avere una tendenza innata a sfuggire alla sua origine, a mascherare la sua derivazione e a farsi assoluto, appunto, non “relazionale”, non “relativo”, ma riposante su se stesso o su una qualche misteriosa dimensione sovrumana. Nel negare la sua origine e natura relazionale il potere di chi comanda vuole non essere debitore della propria forza a chi obbedisce e dunque non vuole rispondere a nessuno del proprio potere. Per questo non appena il potere si instaura, tende a sfuggire, a sottrarsi, anche quando ostenta la propria magnificenza, frappone distanze, ama nascondersi e celarsi nel segreto. È esperienza comune sentir dire dell’una o dell’altra persona: «appena avuto quell’incarico, è cambiato. Non si fa trovare, è inaccessibile. Il potere lo ha cambiato».
Il potere viene dato da altri, ma appena ricevuto, viene vissuto come un appannaggio personale: lo si considera il frutto della propria bravura, lo si conserva gelosamente, ci si aggrappa ad esso, si cerca di aumentarlo e di trasmetterlo ai propri eredi.
Per cercare di far fronte a questo paradosso del potere, che attraversa tutta la storia della rappresentanza politica, la teoria e la pratica politica hanno da sempre cercato di ricondurre l’esercizio del potere alla sua origine di potere derivato e dunque hanno sempre cercato di costringere il titolare del potere a rimanere dentro la relazione con chi in origine quel potere gli ha conferito.
Un ruolo importante, entro queste strategie di riconduzione del potere politico alla sua natura di potere “derivato”, lo gioca il principio di accountability, che in questa ricerca Anna Ascani ha analizzato con cura in alcuni tratti fondamentali della sua storia e in alcune sue articolazioni fondamentali. Molto opportunamente, questo principio viene collocato dall’autrice su uno sfondo più ampio che ha a che fare con la dinamica antropologica del potere che sopra abbiamo evocato e con il grande tema della responsabilità e, altrettanto opportunamente, si delimita il campo d’azione del principio di accountability a cui non si può chiedere di sconfiggere da solo il carattere opaco e sfuggente del potere.
Vi è qui una prima importante indicazione di metodo che vale per questo come per tutti i concetti politici: allargare lo sguardo allo sfondo antropologico su cui si collocano e al tempo stesso delimitare con chiarezza il campo della loro azione specifica. Si evita così da un lato il riduttivismo di chi davanti ai fenomeni politici non ne coglie la densità umana, dall’altro l’ideologismo di chi aggrappandosi all’ultimo concetto alla moda ne fa il chiavistello capace di aprire tutte le porte e di risolvere ogni problema.
Una seconda, altrettanto importante, indicazione di metodo che emerge da questo lavoro sta nello sforzo di coniugare l’orizzonte del passato con quello del presente. Se da un lato i concetti politici rimandano a un più ampio orizzonte antropologico, dall’altro sono sempre concetti storici, che rimandano a situazioni concrete, a concrete organizzazioni sociali e utilizzarli acriticamente al di fuori del loro contesto è un’operazione arbitraria e poco utile dal punto di vista conoscitivo e anche pratico. Per questo è sempre essenziale riandare, almeno nelle linee fondamentali, alla storia dei concetti, storia che non si esaurisce nella storia dei “termini”, ma si allarga alla storia dei “problemi”: accountability è certo termine moderno, ma dietro di esso si cela un problema assai più risalente che anche nelle società antiche si era posto e per la soluzione del quale si erano inventati strumenti istituzionali e pratiche sociali che anche oggi è utile rivisitare.
Infine, una terza indicazione di metodo sta nell’allargamento dello sguardo dal livello nazionale a quello internazionale con particolare riguardo a quell’Unione Europea in cui la nostra politica è sempre più inserita e in cui il principio di accountability sta diventando un principio cardine dell’esercizio del potere. Il tema dell’accessibilità delle informazioni relative agli atti del “potere” europeo e dei suoi titolari è uno dei temi cruciali di una politica che vuole essere “trasparente” e combattere l’opacità del potere. Così come la questione del render conto di ogni potere ricevuto o risorsa amministrata di fronte a coloro che quel potere hanno conferito o di fronte alle opinioni pubbliche dei diversi Paesi o di fronte ai diversi organi di controllo. Rimane aperto, soprattutto a livello europeo, il problema di come tanta attenzione al principio di accountability si concili con l’alto deficit di legittimazione democratica che ancora accompagna molte istituzioni europee, tra le più influenti sulla vita dei cittadini e dei popoli. Ma, appunto, questo è un tipico esempio di come l’implementazione dell’accountability non risolva da sé il problema della democraticità di un sistema istituzionale.
La crisi che le democrazie contemporanee stanno attraversando è ampia e complessa. È crisi della loro dimensione: la democrazia moderna ha avuto negli Stati nazionali il luogo della realizzazione più alta. A questo livello si sono raggiunti i frutti migliori di difesa dei diritti individuali, uguaglianza di possibilità, partecipazione. Ma oggi il livello nazionale è sfidato dal basso da spinte particolaristiche e dall’alto da processi di globalizzazione economica, sociale e politica che spesso comportano compressioni della democrazia e prevalenza della tecnocrazia.
È crisi del loro fondamento: la democrazia è una organizzazione del potere che si fonda sulla sovranità del popolo nelle cui mani è posta la scelta dei propri legislatori e dei propri governanti, ma sempre più cresce l’astensionismo da un lato e il potere di intermediazione di gruppi e lobbies dall’altro che rendono ardua la scelta da parte dei cittadini. Per non parlare di quei Paesi, come il nostro, in cui infelici leggi elettorali sottraggono ai cittadini in modo esplicito questa possibilità. Ma la democrazia è anche una forma di vita, società di persone che si vogliono libere e si riconoscono uguali e che scelgono di autogovernarsi. Questa voglia di libertà, di uguaglianza, di autogoverno e di solidarietà civile in tanti luoghi declina.
È crisi del loro funzionamento: la democrazia rappresentativa è oggi sotto accusa. I “rappresentanti” del popolo non godono spesso della fiducia del popolo che li ha eletti e si fanno avanti richieste di democrazia diretta e di forme alternative di partecipazione dei cittadini al governo della cosa pubblica. Le stesse istituzioni parlamentari vedono rattrappita la loro funzione originaria di arene della discussione e decisione pubblica attraverso prassi argomentative per diventare il luogo della registrazione di decisioni prese altrove, in parte mascherate dietro necessità tecniche, in parte giustificate sulla base di volontà superiori. Ma la democrazia non sopporta volontà superiori. Per debole che sia, la democrazia riconosce unicamente la volontà del popolo come fonte legittima del potere.
E allora se è certo impossibile e ingiusto addossare alla sola accountability il compito di uscire dalla crisi, essa costituisce però un elemento costitutivo di questo processo di rifondazione della democrazia contemporanea, perché essa mira appunto a rimettere al centro il cittadino come sovrano, come fonte del potere pubblico a cui ogni titolare deve rendere conto. La democrazia rappresentativa non è un mero processo di autorizzazione di un gruppo di delegati da parte della cittadinanza, perché essi agiscano liberamente e arbitrariamente in nome loro per un determinato lasso di tempo. È assai più lo sforzo di agire di concerto, nel dialogo costante, nel rispetto reciproco dei ruoli temporaneamente occupati, non solo per “render conto” di ciò che si fa, nel senso dell’“informare” i cittadini sulle proprie attività (cosa in sé assolutamente necessaria), ma anche per recuperare quel “sentire con il popolo” che è un cardine della democrazia, ossia di quel regime che Lincoln definiva “governo del popolo, per il popolo, con il popolo”. Ed è proprio su questo “con il popolo” che occorre porre l’accento, perché se è vero che anche gli altri due ideali sono difficili da raggiungere (il governo del popolo e il governo per il popolo) è forse il governare con il popolo la cosa più difficile. Il continuare a stare dentro la carne della storia, sfuggendo ai rischi della separatezza che la carica pubblica porta con sé. Lo sforzo di esprimere giorno per giorno le speranze e non solo gli interessi dei propri cittadini. Il tentativo di dare una “forma” ordinata e orientata all’interesse generale al tumulto delle passioni e delle opinioni particolari. Il riconoscere la natura “servile” dell’esercizio del potere in democrazia secondo la bella espressione della Dichiarazione dei diritti dello Stato della Virginia (1776): «Tutto il potere è nel popolo, e in conseguenza da lui è derivato; i magistrati sono i suoi fiduciari e servitori, e in ogni tempo responsabili verso di esso».
Dentro tutto questo groviglio di problemi – antichi quanto la democrazia e resi più acuti dalle difficoltà del presente – sta l’accountability, “virtù modesta” – come viene bene tratteggiata in questo lavoro – ma non per questo meno preziosa nel tentativo di ricucire il filo spezzato tra i governanti e i governati. La ricerca di Anna Ascani ha il merito di richiamare la nostra attenzione su questo tema così cruciale, offrendoci preziose indicazioni di metodo e validi spunti di riflessione, tanto più importanti in un momento difficile della vita collettiva. È un contributo assai utile per la formazione di una cultura politica e di una pratica politica più consapevole. Mette nelle mani di ciascuno un pezzo di filo per ricucire lo strappo che si è aperto tra il Paese e i suoi rappresentanti. Vale la pena usarlo.
Michele Nicoletti, prefazione ad Accountability, la virtù della politica democratica di Anna Ascani (Città Nuova, 2014)