Al via la guerra d’Ucraina 2.0
Dunque, finita la prima fase della guerra voluta da Putin contro il governo ucraino – e contro i suoi alleati −, siamo entrati nella seconda fase. Con ogni probabilità, il Cremlino avrebbe preferito non dover attivare un secondo tempo per una guerra che pensava di vincere con le mani in tasca, poche decine di ore per vedere gli ucraini schiacciati da un regime illegittimo cadere nelle braccia dei liberatori.
Per 55 giorni l’esercito ucraino, che alla guerra si preparava da tanto tempo, precisamente dal 2014, data dell’allontanamento del filorusso Janukovic dalla presidenza della repubblica ex-sovietica, con profusione di istruttori provenienti in particolare dagli Stati Uniti, è riuscito a contenere sul campo l’invasione di un nemico sulla carta chiaramente molto, ma molto più potente, con tattiche a metà strada tra il corpo a corpo e i tranelli informatici messi in atto dalla rete di satelliti della Nato e della Ue, e grazie alle forze degli hacker al servizio di Zelensky.
Non si sa quante siano le perdite reali dei due eserciti, probabilmente attorno alle 10 mila vittime per parte, mentre le vittime civili, “danni collaterali” di una guerra per certi versi ancora tradizionale, sarebbero tra le 2 e le 5 mila, secondo stime molto diverse e per il momento difficilmente verificabili.
Il presidente Putin, che nonostante la crescita dell’opposizione nel suo glorioso e fiero Paese, conta sull’appoggio massiccio della sua popolazione, che dalla caduta del regime comunista, cioè dal 1989, soffre di un complesso di frustrazione per via delle umiliazioni subite da parte del campo occidentale, ha deciso di cambiare radicalmente tattica: non disperdere le sue forze militari (circa 150 mila uomini) su un ampio arco di territorio, ritirando le sue truppe dai dintorni di Kiev e del nord del Paese, per concentrarle sul Donbass, contando sull’aiuto delle milizie filorusse della regione, lasciando agli attacchi missilistici il compito di tenere sotto pressione psicologica le principali città del Paese, Kiev e Leopoli in particolare, senza nessuna regolarità negli attacchi balistici.
La fase 2.0 della guerra sembra dunque essere iniziata: la prima tappa, secondo Mosca, dovrebbe essere la presa di Mariupol, luogo della “madre di tutte le battaglie” di questo conflitto, passaggio necessario per poter unire via terra la Crimea, ormai data per persa dagli ucraini, alla madre patria.
Ma la città portuale resiste più del previsto, e l’affondamento dell’incrociatore Moskva non ha favorito l’offensiva. Se cadesse rapidamente, con ogni probabilità i russi cercherebbero di completare la conquista del Donbass scendendo a sud fino a Odessa e, chissà, riuscendo persino a riunirsi con la repubblica della Transnistria, territorio moldavo ma guidato dall’unico regime europeo comunista che si dice ancora “sovietico”.
Ciò permetterebbe a Putin di dichiararsi chiaro vincitore della guerra d’Ucraina, annettendo quindi i territori occupati o creando una repubblica simile a quella della Transnistria, totalmente asservita a Mosca.
Naturalmente, queste sono previsioni su una guerra che sfugge ai normali canoni, e che vede troppi fattori in campo per poter sapere come finirà – pensiamo alle armi dotate di guida digitale, dai droni agli aerei spia, dai satelliti alle ultime generazioni di missili a breve, media o lunga gittata −: riuscirà Putin a compattare il suo campo, soprattutto a ridare morale ai suoi militari, che hanno cambiato di guida per la fase 2.0 dopo i molto discutibili risultati della fase 1.0 (il generale Dvornikov, fautore della vittoria russa in Siria)?
Riuscirà Zelensky a ottenere quelle armi sofisticate di cui ha estremo bisogno per riuscire a fermare l’avanzata nel Donbass? Riusciranno le propagande di entrambe i campi a convincere le proprie popolazioni a continuare una guerra che rischia di continuare ancora a lungo senza un vero vincitore, e con la crescita dei funerali di militari e il lievitare della sorda protesta delle madri delle vittime, fattore di destabilizzazione sin dai tempi di Erodoto?
Si riuscirà a evitare che, nella frustrazione crescente, si entri nella spirale nucleare, seppure con “piccoli ordigni”, dalle conseguenze locali devastanti, ma in un ristretto raggio di influenza? La palla di cristallo non dà ancora responsi degni di nota.
Purtroppo, più la guerra continuerà e più si deterioreranno i rapporti diplomatici, più i missili cadranno e più l’odio crescerà, più le armi circoleranno e più si vorrà usarle. La diplomazia non è morta, ma stenta a uscire dal Venerdì Santo nel quale è costretta dalla polarizzazione delle posizioni occidentali e di quelle del fronte pro-Russia, mentre i colossi cinese e indiano stanno alla finestra, anche perché il conflitto risponde assai a logiche “atlantiche” e non “pacifiche” (cioè dell’Oceano Pacifico): la guerra “atlantica è infatti ancora tradizionale e idealista, la guerra “pacifica” è tutta commerciale e pragmatica.
E intanto s’approfondisce il fossato tra l’Occidente e il resto del mondo. Ogni giorno di guerra in più accrescerà le difficoltà di relazione tra le due parti di un mondo che sta di nuovo polarizzandosi dopo decenni di multipolarità. Mentre sempre più appaiono drammatici gli effetti della delegittimazione delle istante internazionali, in primis l’Onu.