La vera povertà di Jannis Kounellis
È stato definito, giustamente, un maestro dell’Arte Povera. Quella, semplicemente, fatta di oggetti inusuali: carrelli di carbone, lane, bombole a gas, chicchi di caffè, granaglie. Sulla scia dei sacchi di Alberto Burri, per intenderci. Ma anche osando molto di più nelle sue installazioni in cui ha sintetizzato antichità e contemporaneo.
Questi è Janni Kounellis, morto a ottant’anni a Roma, la città di elezione, scelta a vent’anni dal ragazzo greco del Pireo, nutrito di mare e di ellenismo, ma voglioso di dire a tutti il mondo d’oggi in continuo fermento. E di osare, di stupire con audacia neobarocca. Innamorato di geni come Masaccio, Tiziano, Caravaggio che parevano così distanti da lui. Ma come loro – e di lui il tempo dirà se è stato un genio o meno – assetato di novità. E di sintesi: credo che ad esempio gli piacesse più che il primo l’ultimo Tiziano, quello delle folgorazioni improvvise.
Legno, ferro, stracci, bulloni. Ma si può far arte con questi materiali, cosa dicono? Molti se lo sono chiesti, a suo tempo e forse anche oggi, senza cedere alle lusinghe dei media adulatori di ciò che talora fingono di capire, per essere “moderni”. In realtà, Kounellis, voleva e sapeva stupire in una carriera iniziata nel 1960 e decorata da prestigiose costanti rassegne in tutto il mondo, specie quella napoletana del 2006. Come quando a Roma, nel 2002, ha allestito alla Galleria nazionale d’arte moderna Atto unico, un percorso – chi scrive lo ha fatto – di lamiere di ferro nei corridoi e nelle sale: assurdo, all’apparenza, stonato con l’ambiente, sarebbe venuto da dire. Eppure, quelle lamine di ferro apparvero un grido del nostro tempo, espressione di una durezza di cuore così tipica del secolo breve e del secolo ancora più breve, “infinitesimale”, quali sono i primi anni Duemila. Fu, e forse lo è stato davvero, una ispirazione suggestiva, perché coniugava spazi di un altro mondo alle brucianti innovazioni di un maestro contemporaneo, mediante materiali talmente “apoetici” nella loro normalità d’uso da diventare, per contrasto, e a fine percorso, un linguaggio di poesia. Ossia, espressioni di una bellezza anche stringente, dura, ma ricca di forza e di penetrazione.
Kounellis infatti ha avuto il dono di dare espressione – anima –a ciò che è materia inerte o comunque scartata, ma perché è dalla sua anima che faceva uscire una visione nuova di ciò che ci circonda e che usiamo, anche dei legni, dei ferri. A dire in definitiva che dipende tutto dallo sguardo che abbiamo sulle cose, le quali “parlano”. Sta a noi farle esprimere o meglio lasciarle parlare. Ecco perché la povertà di Kounellis non è esibizionismo o semplicemente voglia di dar scandalo, ma voce del suo senti mento. Astioso e ruggente, sconsolato e aggressivo, orgoglioso e timido, ma sempre audace in ricerca dell’essenziale, del ”quadro senza figure”, nudo e libero. Come lui ha voluto essere.