La vera natura dell’uomo

È nella relazione con l'altro che ogni essere umano realizza pienamente se stesso. Dal libro Con occhi diversi, arte e relazioni umane di Michela Dall'Aglio Maramotti, un messaggio intenso e profondo nella vigilia del Santo Natale
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Guardando l’Angelo con un’ala sola di Sandro Chia, la mente va alle parole del Salmista che si chiede: “Che cosa è mai l’uomo?” e risponde: “Poco meno di un dio” (Sal 8, 5-6)[1].

Con la veste umile che lascia scoperte le gambe massicce, i capelli corti e il torso robusto questo angelo sembra l’immagine di un artigiano medievale e non certo un compagno dell’arcangelo guerriero Michele che siamo soliti vedere mentre, brandendo in alto la spada senza sforzo apparente, schiaccia la testa di Lucifero. Neppure pare simile al messaggero celeste Gabriele, lieve come un’intuizione nell’Annunciazione del Beato Angelico.

L’angelo di Sandro Chia non viene dal cielo, ma aspira a salirvi: sta ritto in piedi, col viso rivolto all’insù, dignitoso pur nell’evidente fragilità della sua condizione. Tra le mani stringe un piccolo cuore lucente che racchiude e simboleggia i suoi sentimenti e le sue aspirazioni.

Tutto in lui parla di due direzioni: il suo desiderio è verso il cielo – lo si capisce dal viso, dallo sguardo, dalla gamba sinistra piegata e pronta a balzare -, ma la sua radice è sulla terra – lo dicono la gamba destra, rigida come il tronco di un albero, e l’ala, una sola, afflosciata sulla schiena, che sembra fluttuare inutilmente dalle spalle ai piedi.

È stato chiesto all’artista se quest’angelo abbia perso l’ala o se, invece, sia nato così: “L’angelo ha un’ala sola quando ce ne vogliono due per volare.” – ha risposto Chia – “Se vuole spiccare il volo, deve accompagnarsi a un altro angelo con un’ala. Se vuole elevarsi in volo e portare in alto il proprio cuore brancusiano non ha che da cercare un complice e compagno di viaggio.”[2]

Che abbia perso la sua ala nella notte dei tempi o che sia nato così, L’angelo con un’ala sola per l’artista simboleggia l’uomo che cerca di realizzare la sua aspirazione verso la libertà.

L’opera di Chia, tuttavia, dice molto di più: la si può leggere, infatti, come un’efficace metafora della nostra natura e della condizione esistenziale in cui essa ci pone. Per questo ci ha richiamato alla mente le parole del Salmista; siamo più di quanto crediamo di essere, quasi angeli, o poco meno che angeli. Siamo incompleti, non per colpa o per ignoranza, ma per natura.

Perché? Forse perché questa incompletezza crea lo spazio necessario affinché sia possibile, attraverso la scelta, esercitare la nostra libertà. Qualunque possa essere l’origine e quale la finalità della nostra incompletezza – dell’ala che ci manca, per tornare alla metafora di Chia – è chiaro che, nonostante le nostre aspirazioni elevate e le nostre grandi potenzialità, non possiamo realizzare niente da soli, neppure noi stessi.

Si tratta di una verità antropologica talmente ovvia che, non di rado, la dimentichiamo o la interpretiamo in modo riduttivo. Consideriamo, ad esempio, il passo della Bibbia, a tutti noto, che recita: “Non è bene che l’uomo sia solo” (Gen 2,18); in genere si tende a citarlo in relazione al matrimonio mentre esso fa riferimento a una verità più grande, di cui la naturale tendenza alla vita di coppia è solo una delle espressioni. Non è bene che l’essere umano sia solo, perché non è autosufficiente, la sua natura è tale che per la sua origine, la sua conservazione e il suo sviluppo sono indispensabili le relazioni.

Il ritiro dalla compagnia del mondo, contemplato da tutte le tradizioni religiose, non è solitudine; non lo è neppure la scelta estrema dell’eremita, che a un certo punto della sua vita si isola per vivere più intensamente la relazione con Dio, ma fino a quel momento ha vissuto e si è formato, come tutti gli uomini, in rapporto con altri.

Ci sono animali che sono spinti dall’istinto a incontrarsi solo per riprodursi, e poi riprendono a vivere soli; ci sono esseri viventi che non hanno neppure bisogno di questo. Noi uomini non siamo così: la solitudine è un male che impedisce e diminuisce la nostra esistenza, quando è estrema diventa malattia dell’anima e della mente.

Il bisogno reciproco, evidente nei momenti di pericolo, di debolezza o di sofferenza, non si limita a queste situazioni; abbiamo bisogno dell’altro anche per capire chi siamo. Quando tra noi e un’altra persona corre uno sguardo vero, che non sfiora semplicemente ma vede, noi guardiamo e l’altro ci ri-guarda: non ricambia solo il nostro sguardo, ma da quel momento in poi diviene affar nostro e noi affar suo, diventiamo l’uno per l’altro un appello a cui è necessario rispondere. È sufficiente uno sguardo per creare una responsabilità.

Pensiamo a Caino – il fratello per antonomasia – che non ne vuole sapere di questa responsabilità: uccide Abele e il pensiero che sia suo dovere proteggere la vita del fratello non lo sfiora neppure. Caino pensa che sia compito di Dio difendere Abele, anche da lui, quindi è infastidito dalla domanda: “Dov’è tuo fratello?” Ci pare di sentirlo rispondere, come un adolescente imbronciato, “E che ne so?”, e aggiungere “sono forse io il custode di mio fratello?”(Gen 4, 9).

Ha ragione Caino, e solo Dio è responsabile della vita dell’uomo, o lo siamo noi prima di tutto, noi che dovremmo custodirci gli uni gli altri e capire davvero, con la mente e con il cuore, che solo salvando l’altro salviamo noi stessi?

Se vogliamo che il mondo sia un luogo favorevole alla vita umana nel senso più pieno, che comprende anche l’idea di civiltà – dice la filosofa Elena Pulcini – dobbiamo smettere di avere paura dell’altro e cominciare piuttosto ad avere paura per l’altro, riconoscendoci nella sua stessa situazione di vulnerabile fragilità anziché identificarlo come un concorrente, un rivale nel godimento del mondo (o dell’amore di Dio, come appariva Abele agli occhi di Caino).

Quando, incontrando gli altri, vedremo donne, uomini e bambini e non un diverso colore della pelle o un dettaglio che parla di una cultura diversa dalla nostra, allora sorgerà inevitabile la “consapevolezza di condividere una comune condizione di debolezza, finitezza, sofferenza”[3]. La solidarietà, l’“aver cura dell’esistenza”[4], sia come accudimento di sé sia come premura per l’altro, nasce da qui.

Da Con occhi diversi, arte e relazioni umane, di Michela Dall’Aglio Maramotti, pp. 114, € 16,50



[1]
Le citazioni bibliche sono tutte tratte da La Bibbia, Nuova versione ufficiale della Conferenza Episcopale Italiana, San Paolo, Milano, 2009.

[2]Achille Bonito Oliva (a cura di), Sandro Chia “Della pittura, popolare e nobilissima arte”, Giancarlo Politi Editore, Milano, 2009, catalogo della mostra, Sandro Chia. “Della pittura, popolare e nobilissima arte”, Galleria Nazionale di Arte Moderna, Roma, 16 dicembre 2009-28 febbraio 2010, p. 111.

[3]Elena Pulcini, La cura del mondo: paura e responsabilità nell’età globale, Bollati Boringhieri, Torino, 2009, p. 218.

[4]Luigina Mortari, La pratica dell’aver cura, Bruno Mondadori, Milano, 2006,p. 8.

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