La vera disfida di Barletta: quella sul lavoro sicuro

Leggi all’avanguardia e carenze di risorse in un settore con ampie fasce di lavoro nero
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Bastava vedere la reazione delle persone davanti all’immobile crollato addosso al laboratorio di maglieria di Barletta per avere la percezione di un senso di abbandono dallo Stato, una «tragedia inaccettabile», come ripete in ogni occasione il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Ma è questa l’immagine ampiamente conosciuta di un Paese dove, secondo i dati Istat, sono oltre due milioni e mezzo i lavoratori in nero: il 4 per cento di lavoro irregolare nel settore industriale, con punte di oltre il 10 per cento in quello tessile, a prevalenza femminile. Cifre che appaiono largamente sottostimate a chi opera nel campo se, come riportano fonti sindacali, nella sola regione Puglia oltre il 50 per cento del lavoro in agricoltura avviene al di fuori della legge, con tanto di “caporali” a gestire un flusso di attività lavorative che genera sicuramente ricchezza per alcuni soggetti.

 

Nel settore tessile è fin troppo nota la filiera del notevole valore aggiunto da una serie di laboratori conto terzisti di grandi marche. A livello internazionale, la “campagna abiti puliti” cerca da tempo di far valere la responsabilità sociale dei grandi marchi nell’imporre regole di sicurezza e di lavoro dignitoso in ogni fase della lavorazione: anche perché quelli che si ritrovano a fare da iintermediari non godono di una protezione diversa da quella dei loro dipendenti. L’azione ha raggiunto significativi risultati anche in nazioni considerate, un tempo, appartenenti al Terzo Mondo; ma queste sacche di lavoro illegale esistono anche nel Bel Paese. Il giurista Pietro Ichino osserva che l’alternativa a Marchionne nel Sud non sono altre aziende virtuose ma i sottoscalisti, coloro che cioè lavorano nei sottoscala senza contratto e sicurezza con 400 euro al mese, come le operaie di Barletta. Un dato di fatto che anche il recente film Senza arte né parte, ambientato in Puglia, riporta con toni lievi e lontani da ogni neorealismo. E la precarietà del lavoro è accettata senza nessuna reazione e ribellione di fronte alla carenza di opportunità. C’è fame di lavoro: basti pensare che, all’ultima selezione per 300 addetti stagionali alla Fiera del Levante di Bari, sono arrivate oltre nove mila domande.

 

Ma la realtà purtroppo supera la fantasia. Dietro segnalazione di alcuni lavoratori immigrati, il capo della Procura della Repubblica di Lecce ha accertato nel marzo 2011 la riduzione in schiavitù di operai ingaggiati nella costruzione di parchi fotovoltaici commissionati ad aziende estere. Erano costretti a lavorare sotto minaccia di punizioni anche con turni di 24 ore, senza contributi, riposi e altri diritti elementari. Eppure questa Regione ha una legge, la numero 28 del 2006, tra le più rigorose ed evolute nel contrasto al lavoro nero e allo sfruttamento della manodopera, così come sono in vigore accordi operativi tra governo regionale e Guardia di Finanza. Esiste anche un programma di emersione con tanto di Osservatorio regionale dell’economia sommersa e un sito ricco di dati e studi. Ma evidentemente c’è una carenza di coordinamento burocratico e di risorse, che non consente di assumere nemmeno un numero sufficiente di ispettori del lavoro.

 

Il duello d’armi avvenuto nel 1503, passato alla storia come "la disfida di Barletta", ritorna attuale. Solo che ora si combatte insieme per la giustizia.

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