La vecchia tentazione dell’interferenza
Mezzo mondo è in subbuglio, le piazze si sono riaccese un po’ ovunque, forse meno nella Vecchia Europa e nell’America settentrionale, guarda caso i continenti che erano stati la culla del 68. Oggi è un’altra epoca. E guarda caso proprio da questi due continenti vengono i tentativi più importanti (la Russia è in questo senso europea) di interferenze nelle attuali “rivoluzioni”, avendo una larga esperienza in materia nelle guerre che in questo momento sono attive, come le varie conflittualità nel Medio Oriente, o quelle della zona sahariana. Tali interferenze avvengono il più delle volte sotto traccia, ma talvolta sono applicate esplicitamente, come è accaduto nei giorni scorsi per le rivolte di Hong Kong, che Donald Trump ha voluto sostenere pubblicamente.
Ora, questi tentativi di influenzare le crisi che scoppiano qua e là non hanno quasi mai una dimensione di “sincerità politica”, avendo piuttosto come primo movente il raggiungimento di vantaggi materiali o geostrategici. Ma hanno una loro efficacia? Poche volte. Ricordo una conversazione con un ambasciatore occidentale a Kiev, in Ucraina nel 2014, durante la grave crisi con i vicini russi, che portarono alla caduta del presidente Poroshenko e alla annessione di fatto da parte di Mosca della Crimea e di alcuni territori del Donbass. Ebbene, il diplomatico denunciava i supporti statunitensi alla rivoluzione della piazza Maidan, sia materiali che propagandistici, che avevano introdotto un inquinamento non da poco sulla sincerità dell’operato della folla, orientando in una dimensione “anti” quella che in origine era una rivolta “per”. Sappiamo tutti com’è finita: la Russia ha tratto i suoi vantaggi dalla guerra scoppiata dopo la rivolta, il conflitto non è ancora realmente terminato, e i più deboli, cioè i contadini del Donbass, ci hanno rimesso le penne, sono rimasti feriti o vivono attualmente in stato di grave indigenza.
Stesso discorso potrebbe essere fatto per le cosiddette “primavere arabe” del 2011, soprattutto quella di piazza Tahrir in Egitto o quella analoga di Homs in Siria. Se al Cairo ciò ha aperto la porta alla tragica ascesa al potere di Morsi, capo dei Fratelli musulmani, conclusasi poi con un colpo di Stato come quello di al-Sisi e la morte in carcere dello stesso Morsi, in Siria la rivolta ha avuto come conseguenza una guerra civile, e poi altre sei o sette guerre che si nascondevano l’una nell’altra, e niente meno che 300 mila morti. I Paesi occidentali erano intervenuti in massa, perché ritenevano che quelle rivolte rivelavano il prossimo passaggio di tali Paesi alle democrazie elettive all’Occidentale. Sappiamo bene come tali speranze sono naufragate: basti ancora l’esempio della Libia, dove a otto anni dalla morte “provocata” di Gheddafi, grazie alla lungimiranza da miopi della Francia e della Gran Bretagna in particolare, lo stato di degrado sociale del Paese mediterraneo è oggi devastante, oltre ad aver aperto le porte alla destabilizzazione del Sahel, attirando jihadisti dal mondo intero.
Oggi, dunque, la tentazione dell’interferenza colpisce ancora. E fallirà molto probabilmente, rischiando di trascinare con sé anche le stesse rivolte locali. Perché tali interferenze di solito si macchiano di tre (e più) peccati sociali: 1) la mancanza di contestualizzazione, cioè la scarsa conoscenza delle realtà locali; 2) la scarsa sensibilità all’autodeterminazione dei popoli; 3) il delirio di onnipotenza di chi si crede invincibile perché ricco e potente. Non a caso una delle caratteristiche delle attuali rivoluzioni, dal Mar di Cina al Pacifico, è il rifiuto delle ingerenze straniere nelle faccende dei singoli Paesi. Recentemente in Libano, dopo il pesante intervento del Dipartimento di Stato Usa nelle faccende della Piazza dei Martiri, migliaia di rivoltosi si sono spostati attorno all’ambasciata di Washington per rifiutare qualsiasi endorsement a stelle e strisce.
I Paesi che si credono paladini delle libertà individuali spesso dimenticano cosa sia la libertà collettiva degli altri.