La valigia di una madre

Irène Némirovsky, tra letteratura e vita. La maternità fragile.
Irène Némirovsky

Tutto ha inizio da una valigia, all’alba dell’estate del 1942. Irène Némirovsky, affermata scrittrice ebrea emigrata a Parigi da Kiev, ha davanti a sé poche ore di vita: l’attende l’arresto, la deportazione ad Auschwitz, la camera a gas. Con meticolosa attenzione prepara ogni dettaglio per la fuga delle sue due amate figlie, Denise ed Elisabeth, affidate alla tutrice perché le porti in salvo. Le bambine porteranno con sé solamente una piccola valigia che le accompagnerà nel lungo viaggio per la sopravvivenza. «Il mio compito era solo quello di conservarla», racconterà Denise sessant’anni dopo, quando finalmente si sentirà pronta a misurarsi con il suo contenuto. «Lo feci solo quando i miei figli furono abbastanza grandi da reggere la vista di una madre che affrontava il suo dolore più grande». Gli scritti contenuti in quella valigia, pubblicati postumi, segnano – a più di mezzo secolo di distanza – il ritorno alla ribalta di Irène Némirovsky.

 

Nelle pagine dei suoi libri si mescolano vita e letteratura, esperienza e presagio, analisi ed emozione. Figlia unica poco amata, bambina solitaria e infelice, ospite sgradita persino tra le mura della propria casa, la Némirovsky indaga l’indole umana riducendo al minimo le distanze, soprattutto quando scolpisce i suoi personaggi femminili. L’immagine della madre domina e incombe ne Il Ballo (Adelphi), in Jezabel (Adelphi), in Un bambino prodigio (Ed. Giuntina).

La ritroviamo nei personaggi femminili che, non volendo crescere, coltivano con eccesso la propria bellezza e giovinezza, e non volendo fare i conti con il passare del tempo intravedono nell’acerba bellezza delle figlie un terreno di competizione. Egoiste fino alla perversione, sono tutte concentrate nel tentativo di arginare il declino della propria femminilità. Ruoli e posizioni vengono infranti per cui le figlie si vedono costrette a crescere in fretta, a farsi carico dell’immaturità delle madri. Per loro sembra non arrivare mai il momento in cui «prendere parte al ballo» della vita: finché restano bambine, infatti, sono inoffensive, mentre la loro crescita è segno di minaccia e pericolo.

 

Deserti dell’anima tratteggiati con una scrittura nervosa, sempre in tensione, attraverso ritratti che stupiscono per la loro modernità. Così simili a quelle immagini di madri eterne adolescenti, vestite e atteggiate come le figlie, occupate e preoccupate del proprio corpo, perse nei meandri dei social network e di Internet, che ci vengono proposte dai media e che molti pedagogisti riconoscono come una delle fragilità dei nostri tempi.

Mi racconta Maria Pia Lolli, quotidianamente impegnata nella consulenza per le famiglie, del suo incontro con madri che hanno bisogno di essere al centro dell’attenzione, suscitando nei figli competizione e mancanza di autostima e con casi di “genitorialità rovesciata” in cui i figli sentono il dovere di contenere le angosce dei genitori, col peso di soddisfare i loro bisogni.

 

Tutti segnali di una maternità fragile che stenta a riconoscere e rispettare il luogo fisiologico di ogni generazione. Maternità che talvolta assume la forma di un esasperato controllo nella vita delle figlie, talvolta i connotati di un’amicizia impropria, laddove le madri vogliono condividere tutto della vita delle figlie, talvolta i contorni della colpevolizzazione con figlie che diventano il bersaglio di rinunce e solitudini.

Lungo questi sentieri dell’anima, ci conduce la scrittura della Némirovsky. La sua valigia ha custodito per anni il buio del rifiuto materno, un rifiuto che la madre ha riversato anche sulle nipoti quando, orfane e prive di mezzi, hanno bussato alla sua porta. Eppure, anche in questo vuoto, la vita di Irène strappata all’oblio dall’amore delle figlie brevemente ma intensamente amate, ha il sapore del riscatto e della pacificazione. Una rinascita possibile anche nelle situazioni più dolorose.

 

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Se le madri restano adolescenti

 

La dott.ssa Adele Canna è psicologa-psicoterapeuta e madre di due bambini.

 

Quale modello di donna viene proposto dalla cultura dominante?

«La società oggi ci impone un concetto di giovinezza come bellezza, come percezione del successo e questo influenza molto l’immagine femminile, soprattutto se la donna ha una struttura fragile di personalità. Se la donna non ha raggiunto una maturità psicologica, a motivo di situazioni particolari vissute nella sua infanzia o adolescenza, diventa sicuramente una persona a rischio e influenzabile. Per sentirsi donna valorizzata e apprezzata, sentirà più facilmente il bisogno di conformarsi e crearsi così un’identità mancata, basata sul culto del corpo e dell’apparire».

 

Come deve essere un sano rapporto tra madre e figlia?

«Una madre deve sapersi porre in relazione di ascolto ed essere guida sicura attraverso il suo modo personale di essere donna. Una figura complice, solidale, affettiva, ma nello stesso tempo autorevole, capace di rimanere nel suo ruolo di madre. È importante non confondere la barriera generazionale, dobbiamo saperci avvicinare ai nostri figli senza emularli. Il sovvertimento di questo ruolo fa saltare un equilibrio. In particolare l’adolescenza è un momento estremamente delicato perché la figlia è alla ricerca della sua identità e in questo processo di costruzione del sé è necessario separarsi dalla madre, per “distinguersi”. La figlia deve comunicare a sua madre “io sono diversa da te”, la madre deve “lasciar vivere la figlia” come persona, nel rispetto della sua unicità».

 

Come si delinea la femminilità lungo la crescita?

«Per ogni figlia la relazione con la madre è fondamentale nella costruzione di un’identità femminile solida, che influenzerà i futuri vissuti affettivi e interpersonali. La madre è un modello a cui fare riferimento per tutto quanto riguarda l’amore, la sessualità, il lavoro, il comportamento nella società. Dall’altra parte anche la madre può trarre nutrimento da un rapporto sereno e di complicità con la figlia. In particolare per quelle madri che non si sono sentite amate come figlie, il costruire una relazione significativa con la propria figlia può aiutarle a ricucire una ferita e far rivivere quella bambina che dentro di sé ha sofferto. Quindi può rappresentare una rinascita».

 

Quali sono gli indizi per riconoscere un rapporto non maturo?

«Se manca la capacità della madre di separarsi emotivamente dalla figlia, per aiutarla a diventare una donna autonoma, si possono creare delle problematiche psicologiche. Pensiamo a quelle madri che cercano di rivivere la loro giovinezza attraverso la vita delle loro figlie. Queste donne cercano di creare un legame per poter comunicare con la figlia: “Io assomiglio a te per entrare nel tuo codice comunicativo”. L’intenzione è giusta; è solo sbagliato il modo con cui cercano di creare questo legame. Sono donne che cercano di essere più amiche che madri e che pretendono di conoscere tutto delle loro figlie, interpretando come un segnale negativo i segreti che le figlie vogliono tenere per sé. Cosa invece del tutto lecita e normale, poter mantenere una propria privacy e poter parlare di certi argomenti con le amiche».

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