La tv che vorrei tra tecnologia e democrazia
Ci risiamo con le televisioni. Il governo ha approvato, lo scorso 12 ottobre, il disegno di legge del ministro Gentiloni che spedisce nel mondo del digitale una televisione Rai e una Mediaset; ciò significa che per vedere Rete 4 e Rai3 (o forse Rai2?) bisognerà dotarsi – molti già ce l’hanno – di uno speciale decoder. È solo il primo passo: entro il 30 novembre 2012 dovrà avvenire il passaggio delle reti televisive attuali, che usano la tecnologia analogica, alla tecnologia digitale. Il sistema detto del digitale terrestre (in sigla Dtt), scelto dall’Italia, consiste in una soluzione tecnologica che consentirà di avere una quantità almeno sei volte maggiore di reti televisive, pur utilizzando lo stesso limitato numero di frequenze disponibili. Il nuovo disegno di legge vorrebbe disciplinare il periodo di transizione nel quale ci troviamo; e come primo atto costringe i due colossi televisivi italiani a dimagrire, entro 15 mesi, di una rete ciascuno. Non si tratta di un provvedimento arbitrario o inaspettato; esso produce, in realtà, l’effetto pratico voluto da un’ormai antica sentenza della Corte costituzionale (1994), in seguito alla quale Rete 4 sarebbe dovuta passare al satellite, e Rai 3 non avrebbe più potuto raccogliere pubblicità. La legge del ministro Gasparri, nella passata legislatura, aveva poi coperto tutta la faccenda, consacrando l’esistente e, anzi, rinforzando il duopolio televisivo italiano: poneva infatti dei limiti all’acquisizione di pubblicità che permettevano a Rai e Mediaset di espandersi ulteriormente. Che la cosa non potesse reggere era evidente; non solo Città nuova intitolò il relativo articolo Fare e disfare (1), ma il mantenimento del duopolio andava, oltre che contro il parere della Corte costituzionale, anche contro quello dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, e di svariate istituzioni europee. Gentiloni cambia radicalmente l’impostazione della legge Gasparri, perché stabilisce, tra le altre cose, che nel futuro ordinamento nessuno potrà superare il 20 per cento della capacità trasmissiva complessiva, né potrà raccogliere più del 45 per cento della pubblicità: (un limite che appare franca- mente, per il futuro, un non-limite, anche se avrebbe senso oggi, con Mediaset che raccoglie il 66 per cento) proprio per garantire la presenza di una pluralità di soggetti; fin d’ora, le frequenze liberate dal passaggio al digitale delle prime due reti, verranno cedute a condizioni che il disegno di legge vuole eque, trasparenti e non discriminatorie , stabilite dall’Autorità competente. È prevista inoltre una trasformazione del sistema di rilevazione degli indici di ascolto (l’attuale Auditel), per ottenere maggiori garanzie di correttezza. Metodologia della cittadinanza Alla notizia, alcuni hanno gridato contro il governo bolscevico che manda alla fucilazione lo zar Emilio Fede-Romanov insieme ai suoi bambini; altri invece si sono inebriati all’odore del sangue, nella speranza di una tremenda vendetta anti-berlusconiana; perché la nostra politica attuale vive anche di – e crea – vere e proprie patologie. Conosco personalmente decine di esseri umani mediamente ragionevoli, capaci di trasformarsi come il dottor Jekill quando si parla di politica: affiderei loro la mia vita, ma non mentre leggono il giornale. Di fronte ad argomenti controversi come questo, che purtroppo permangono irrisolti da decenni e avvelenano il clima politico italiano, urge assumere un atteggiamento che potremmo definire come metodologia della cittadinanza: bisognerebbe cioè riuscire a dimenticarsi il partito per il quale votiamo ed assumere, prima di tutto, l’ottica del cittadino. È vero che anche attraverso il voto per un partito siamo cittadini; ma la cittadinanza non si riduce a questo; prima di votare un partito bisogna stabilire le regole, costruire un quadro comunitario condiviso: senza di esso, non potremmo neppure godere di quella unità civile, che è insieme unità istituzionale e culturale, che ci garantisce la libertà di votare ciascuno diversamente dall’altro. Ma questa libertà non è tale se non riceviamo le informazioni per esercitarla correttamente. Per questo, le regole che riguardano le televisioni hanno a che fare direttamente con la democrazia. E dobbiamo occuparcene come cittadini, prima di collocarci da una parte o dall’altra dello schieramento politico, dunque prima di votare e proprio per poterlo fare decentemente. Chiediamoci allora come davvero dovrebbero essere le televisioni del nostro Paese, per riuscire a dare a noi cittadini tutte le informazioni esatte ed equilibrate che servono per una scelta politica consapevole. La razionalità democratica stabilisce alcune precise linee di fondo. La prima. È errato pensare che una buona informazione si ottenga semplicemente per la bravura di un’unica fonte; è errato dal punto di vista della logica democratica, che non si affida mai al buon cuore di uno solo, ma all’interazione fra molti, proprio perché la democrazia è, nelle sue basi antropologiche, accettazione dell’esistenza di altri diversi da me; ed è, nella sua forma politica, la ricerca di regole che rispettino e valorizzino questa diversità all’interno di una comunità unita. Nella logica della democrazia, dunque, si arriva ad un buon risultato informativo attraverso il pluralismo delle fonti di informazione, in competizione tra loro sia nella ricerca della verità dei fatti, sia nella loro interpretazione. La seconda. Il principio di libertà richiede che la proprietà delle fonti di informazione sia diversificata; in altri termini, la pluralità di cui la democrazia ha bisogno non è garantita da un unico proprietario, neppure se questi fosse un proprietario istituzionale, quale lo Stato: il detentore del potere politico del momento, infatti, può fortemente condizionare i mezzi di informazione – anche diversi fra loro – di proprietà pubblica, come è periodicamente successo in Italia. Non è mai esistito un Paese al mondo nel quale la proprietà statale dei mezzi di informazione abbia garantito la libertà di espressione; al contrario, molti popoli sotto dittatura hanno imparato dalla storia che colui che possiede tutti i mezzi, determina anche tutti i fini. In questo caso, il servizio pubblico, inteso proprio come il bene comune, cioè la possibilità per ciascuno di formarsi liberamente un’opinione propria, è garantito dall’esistenza di diverse proprietà delle fonti. La terza. La proprietà dei mezzi di informazione, come in ogni mercato, dev’essere regolata; c’è un caso nel quale può rendersi necessario, proprio per mantenere la libertà, intervenire per limitare e regolare la proprietà: e questo avviene quando si formano dei monopoli, o degli oligopoli, che impediscono ad altri soggetti di entrare in scena. È il caso attuale dell’Italia. Una triste storia Non sprechiamo energie a litigare su chi ha più colpe; un breve sguardo al passato è sufficiente a convincerci quanto sia difficile stabilire graduatorie. Il gigantismo della Rai, infatti, si è formato per motivi interni a coloro che detenevano il potere, non certo in funzione del bene pubblico: era necessario disporre di una pluralità di reti per poterle distribuire con efficacia tra i diversi partiti. In tal modo, è vero che un certo tipo di pluralismo dell’informazione veniva garantito dalla diversità tra i partiti; ma questo non giustifica minimamente il sistema, anzi: il pluralismo informativo non era più un diritto di cui i cittadini godevano direttamente, ma indirettamente, attraverso una mediazione che attribuiva ai partiti un ruolo – e un potere – istituzionale che non compete loro, dunque improprio e sfacciato. Si creava così l’abnorme paradosso della cosiddetta prima repubblica, per cui i cittadini erano liberi solo attraverso una servitù partitaria. Ad un certo punto Berlusconi cominciò ad emergere anche come imprenditore mediatico, imponendosi – a volte spietatamente – nell’universo effervescente delle televisioni private; ma riuscì a costruire un impero solo attraverso un appoggio politico esplicito – sfacciato anch’esso – e costante; e dovette costruire un secondo mostro grande quanto la Rai, perché era quest’ultima ad imporre le dimensioni aziendali che consentivano di competere. Oggi le televisioni del Cavaliere hanno un fatturato superiore a quello delle televisioni di Stato, con metà dei dipendenti e senza godere del canone; una superiorità commerciale evidente; nessuno può dire che in Mediaset non ci siano imprenditorialità e competenza: ma a che cosa sono prevalentemente orientate? La gara con la Rai è stata condotta in modo da abbassare il livello culturale di ambedue i colossi, arrivando a sei reti generaliste, che si imitano in tutto, che si rubano l’una con l’altra gli stessi usurati personaggi, incapaci di innovare sia nei contenuti che nei mezzi. È bene rendersi conto che una concorrenza che non produce innovazione ma imitazione, che non seleziona verso l’alto ma verso il basso, non è la concorrenza libera e costruttiva che alimenta le democrazie, ma quella cosiddetta posizionale, che distrugge risorse, sia umane sia materiali. Rai e Mediaset sono due anomalie che condizionano la vita democratica: ridurre le loro dimensioni, costringerle a confrontarsi con concorrenti intelligenti, che dovranno inventarsi cose nuove e nuovi stili per conquistare il pubblico, tutto questo è semplicemente necessario e improrogabile. I compiti del servizio pubblico Il ministro Gentiloni ha annunciato che fra poche settimane produrrà un documento che riguarderà il riassetto del servizio pubblico. Lo leggeremo con attenzione. Nel frattempo, però, sono state pubblicate le linee-guida che dovrebbero ispirare il servizio pubblico radiotelevisivo per la durata del contratto triennale che lega il ministero delle Comunicazioni alla Rai – Radiotelevisione italiana. È in prati- ca l’elenco di ciò che ci si aspetta da una televisione che – non accidentalmente o come effetto secondario, ma per sua natura – è stata concepita per svolgere un servizio pubblico. Non altrimenti infatti si giustificherebbe il pagamento obbligatorio di un canone da parte di tutti coloro che possiedono un televisore. Si tratta di compiti precisi, il primo dei quali è l’obbligo per la Rai di assicurare una offerta di qualità in tutti i generi di trasmissioni. Ma la Rai deve occuparsi di tutti i generi di trasmissioni? Niente affatto! Può tranquillamente dimagrire e svolgere i compiti per i quali è nata e che riguardano l’informazione democratica e pluralista, la promozione della cultura e dell’arte, lo sviluppo del senso critico dei telespettatori, la comunicazione sociale che fa conoscere l’attività delle comunità intermedie e le esigenze delle fasce più deboli, l’educazione, la formazione e la diffusione della cultura scientifica e umanistica. Non viene il dubbio che tutto ciò difficilmente possa venire realizzato attraverso le varie isole dei famosi? Noi cittadini accetteremmo mai di pagare delle tasse perché lo Stato tenga aperte delle panetterie, quando panettieri privati saprebbero lavorare molto meglio? Certamente no, perché non sono questi i compiti dello Stato. Se lo Stato non ha il compito di produrre panettoni, non ha neppure quello di intrattenere e far ridere la gente; e allora, come coloro che hanno voglia del panettone se lo comprano, così chi vuole farsi quattro risate se le compri guardando un programma finanziato attraverso la pubblicità o con il pagamento volontario da parte degli spettatori che vi si abbonano. La tecnologia è in costante progresso. Pensiamo al Wimax – una tecnologia radio a banda larga -, che consente una comunicazione veloce via etere a basso costo: è già usato in alternativa alle reti via cavo in metropoli come New York, ma consente di collegare anche vaste zone rurali come la francese Vandea. Le frequenze assegnate dall’Europa all’Italia sono attualmente monopolizzate dal ministero della Difesa ed esiste un conflitto di competenze che i ministri Gentiloni e Parisi, si spera, risolveranno in fretta. Ciò che conta è riuscire a prepararci, tutti d’accordo, come paese, a gestire le nuove possibilità di libertà e di partecipazione che la tecnologia ci offrirà in maniera sempre più massiccia; la tecnologia da sola, infatti, non costruisce democrazia, non porta progresso umano reale, se non è utilizzata in maniera cosciente per tali fini; da sola, potrebbe non farci superare il duopolio attuale. D’altra parte, in altri settori delle telecomunicazioni abbiamo ottenuto buoni risultati: esemplare, per molti aspetti, la telefonia, settore nel quale si è passati da un regime di monopolio ad uno di concorrenza costruttiva, che ha moltiplicato i servizi e abbassato i loro prezzi, come si può costatare osservando i dati al 1998 al 2005; le possibilità di comunicazione dei cittadini sono aumentate insieme alla loro libertà di scelta; e l’industria italiana dei servizi di telecomunicazione, in un anno di stagnazione come il 2005, è cresciuta in valore del 4,3 per cento rispetto all’anno precedente. Se si legge la Relazione annuale di Corrado Calabrò, presidente dell’Autorità per le comunicazioni, si nota come egli rivendichi con orgoglio l’operato dell’Autorità, che ha favorito l’ingresso di nuovi operatori della telefonia e la creazione di reti alternative, dando vita ad un sistema di competizione sostenibile. È esattamente il risultato che si dovrebbe ottenere con le televisioni. Ma è un risultato che non verrà da solo: L’Italia stenta ancora ad appropriarsi – sostiene Calabrò – con un grande disegno di politica industriale, di tanta innovazione. Noi semplici cittadini non saremo capaci di contribuire ai grandi disegni tecnici, ma se riusciremo a toglierci di dosso la faziosità, potremo orientare il disegno strategico più grande: quello delle regole giuste.