La Turchia e l’Europa

Pasquale Ferrara
Riguardo all’ingresso della Turchia in Europa, è frequente sentire l’opinione negativa di persone di differenti orientamenti, politici e culturali, fortemente preoccupati per l’impatto dirompente che questo ingresso massiccio potrebbe avere sulla fragile identità cristiana europea. Quali le ragioni del sì e quali del no della sua entrata a far parte dell’Europa?
(Pino Gennari)
 

Risponde Pasquale Ferrara, Capo Unità Analisi e Programmazione del Ministero Affari Esteri. Docente di Teoria politica della Comunità internazionale all’Istituto universitario Sophia di Loppiano.

 

La questione dell’adesione della Turchia all’Unione Europea deve essere collocata in un contesto che considera sia gli aspetti legati alla politica internazionale sia quelli, più profondi ed impegnativi, del progetto politico europeo, delle sue caratterizzazioni al contempo identitarie e inclusive, del suo porsi come luogo di esercizio del multiverso delle stesse culture europee e dell’intreccio delle loro relazioni con un ambito «regionale» più vasto e multiforme.

1. Il contesto internazionale

Come premessa occorre osservare che oggi emerge nella stessa Turchia un processo di maggior ponderazione (anche se non si tratta di certo di una «riconsiderazione») sulle prospettive di accesso all’Unione Europea. Ciò non mette ovviamente in discussione – per ora – la scelta strategica della Turchia di aderire a pieno titolo all’Unione Europea, come si evince chiaramente anche dagli orientamenti del nuovo Ministro degli esteri, Davutoğlu. Tuttavia si fa strada tra gli analisti il convincimento di un progressivo «raffreddamento» dell’inclinazione pro-europea della classe dirigente (non necessariamente di quella politica) e dell’opinione pubblica rispetto a quanto era stato invece possibile registrare agli inizi degli anni duemila. A riprova di un ormai radicato scetticismo della popolazione turca sull’esito del percorso europeo di Ankara, da un recente sondaggio («Transatlantic Trends» 2009), emerge come, nonostante il 48% dei turchi ritenga che l’ingresso nell’Unione Europea continui ad essere una prospettiva positiva (registrandosi comunque un calo verticale rispetto al 73% a favore dell’adesione registrato nel 2004), solo il 35% è convinto che alla fine si raggiungerà effettivamente tale risultato. Inoltre, solo il 32% degli intervistati turchi esprime un’opinione positiva nei confronti dell’Unione Europea, e solo il 26% ritiene auspicabile una forte leadership di Bruxelles a livello mondiale; quasi la metà del campione (43%) sostiene una politica "autonoma" di Ankara sia rispetto agli Stati Uniti che nei riguardi dell’Europa. Inoltre quello fra Europa e Turchia è oggi prevalentemente visto come un rapporto pragmatico, razionale, produttivo, non necessariamente «identitario» in senso culturale: in un analogo rapporto del 2008, emerge che il 57% degli europei ed il 55% dei Turchi ritengono infatti di non considerare la Turchia come «appartenente all’Occidente».

A questo esito contribuiscono anche i mutamenti in corso nella struttura socio-economica turca, come l’emergere del «calvinismo islamico», vale a dire una concezione «etica» della produttività economica a partire dalla fede islamica, alla stregua della weberiana tesi sul rapporto tra etica protestante e spirito del capitalismo. Il laboratorio di questo nuovo esperimento, che punta a coniugare armoniosamente Islam e modernità, si trova nella provincia di Kayseri, dove operano aziende che sono state definite le «tigri dell’Anatolia».
La prospettiva europea ha almeno in parte perso vigore anche sul piano degli equilibri interni in Turchia. Per taluni esponenti della politica e della società turca, l’obiettivo europeo dovrebbe essere considerato in termini più tattici che strategici. Era stato proprio il nuovo Ministro degli Esteri Davutoğlu, del resto, ad elaborare già nel 2001 – quando divenne il principale consigliere di Erdogan in materia di politica estera – la cosiddetta dottrina della «profondità strategica». Quest’ultima si fonda sulla convinzione che solo una politica estera pragmatica, complessa e «multivettoriale» sia in grado di tutelare in modo adeguato gli interessi nazionali di Ankara. La strada europea deve dunque essere perseguita con determinazione, ma non rappresenterebbe che una delle «dimensioni» possibili, poiché la sicurezza nazionale dipende anche (se non soprattutto) dalla capacità di creare un contesto stabile nella regione mediorientale.

La verità è che si delinea un nuovo scenario strategico per la Turchia dopo l’elezione di Obama alla Casa Bianca, rispetto alle limitate possibilità di scelta offerte al Paese durante gli anni dell’Amministrazione Bush. In quel periodo, infatti, le profonde divergenze con gli Stati Uniti e il «corto respiro» di un’eventuale relazione alternativa con Mosca, hanno finito per rafforzare l’orientamento europeista di Ankara, in parte per genuina convinzione, in parte per mancanza di valide opzioni su altri scenari. Con l’avvento della nuova Amministrazione americana, che coincide con una crescente frustrazione per le posizioni di chiusura di alcuni Paesi (come Francia e, in parte, Germania) la Turchia (non solo e non tanto il Governo, quanto influenti gruppi dirigenti e l’intellighentzia) sembra voler conquistare una maggiore «latitudine» nelle scelte fondamentali di politica estera, ponendosi al centro di processi di stabilizzazione in Medio Oriente («binario siriano»), in Asia Centrale (questione afgana) e nel Caucaso. La Turchia è sempre più consapevole delle possibilità di apportare un valore aggiunto agli scenari considerati strategici da Washington, specie in considerazione del nuovo approccio multilateralista (non necessariamente in senso istituzionale) e «regionale» dell’Amministrazione Obama. Nel Paese cresce il convincimento (che ritengo deleterio per la stessa Turchia, oltre che per l’Europa) di poter «contare» sul piano geo-politico forse più in virtù di una relazione funzionale con Washington che sulla base di una sempre più chimerica relazione strutturale con Bruxelles. La vicenda della nomina di Rasmussen a Segretario Generale della NATO è stata in diversi ambienti considerata come il paradigma di un «metodo» di decisione politica (di stampo franco-tedesco) che non include Ankara tra le capitali in cui si confezionano le decisioni importanti. Il «caso Rasmussen» sarebbe, in tale ottica, emblematico della scarsa attenzione che ormai l’Europa riserverebbe alla Turchia (non solo nel senso dell’Unione Europea in quanto tale, ma anche in senso euro-atlantico).
Se il caso Rasmussen è stato vissuto come una «deminutio», la visita compiuta da Obama in Turchia, per converso, ha rafforzato il sentimento di «auto-stima geopolitica» della Turchia, che si alimenta anche del «consolidamento» della sua posizione nell’ambito della governance globale in virtù della crescente rilevanza delle nuove geometrie (in particolare il G20). Ciò vale, in particolare, per un’area strategica per la stabilità mondiale, vale a dire il Medio Oriente.

2. La «questione identitaria»

In molti Paesi europei, la giustificazione ricorrente per politiche che definirei in senso lato "identitarie" (ed anche per l’opposizione all’ingresso della Turchia nell’Unione Europea) è, per l’appunto, la preoccupazione di salvare l’identità “europea” (che tuttavia è in già in se stessa multipla ed assai eterogenea: basti comparare ad esempio il concetto di famiglia che c’è in Grecia rispetto a quello diffuso in Olanda!) rispetto all’alterità (che si pretende assoluta) dei musulmani e del loro mondo di valori.
Gli argomenti utilizzati sono molteplici; quello che ritengo più interessante si fonda essenzialmente sul problema dell’autonomia della politica rispetto alla religione, poiché l’Islam, secondo questa interpretazione, sarebbe condannato a rimanere al di fuori ed al di là della società liberal-democratica per la sua refrattarietà al principio di laicità della vita pubblica.
Mentre l’universalismo cristiano sarebbe fondato sull’individualismo responsabile, l’universalismo dell’Islam considererebbe non già l’individuo, ma la comunità con le sue leggi cogenti come la "cellula fondamentale" della vita pubblica. Sarebbe estranea all’Islam la distinzione tra Stato e società civile, tra sfera pubblica e sfera privata, tra la semplice conformazione alle regole e la condotta morale. Da qui la presunta incompatibilità “politica” prima ancora che culturale della Turchia – Paese a prevalente religione islamica – con l’Unione Europea

Questa argomentazione ignora che, nel caso specifico, la Turchia, dopo la fine dell’Impero Ottomano al termine della Prima Guerra Mondiale, ha instaurato un ferreo sistema politico rigorosamente laico, anzi a tratti laicista, e che quindi la pretesa sovrapposizione tra religione e politica potrebbe riguardare un’eventuale, drammatica involuzione futura del Paese, ma non si rintraccia nella sua storia recente.
Durante una seduta del Parlamento europeo nel 1999, un deputato (francese) chiese all’allora Presidente della Commissione Europea Romano Prodi, dove finisse l’Europa. Il Presidente della Commissione aveva appena annunciato, infatti, un’ampia strategia di "allargamento" dell’Unione Europea a diversi Paesi, parlando anche di Turchia ed auspicando un rapporto preferenziale con questo grande Paese proteso tra due continenti e due culture. È comprensibile lo sgomento dinanzi un ampliamento dell’Unione Europea dal Baltico al Mar Nero, persino più impegnativa di un’Europa "dall’Atlantico agli Urali". D’altronde c’è chi sostiene, apportando ragioni storico-culturali, che l’Unione Europea debba limitarsi alla sua caratteristica di "cuore" politico ed economico dell’"Europa occidentale". Alla ricerca di un principio di «occidentalità» più difendibile, Ralf Dahrendorf ha scritto che, mentre si potrebbe convivere con una definizione geograficamente vaga dell’Europa, la sua definizione politica dovrebbe essere, per contro, assai rigorosa. Dovrebbe trovare applicazione, sembra di capire dal ragionamento di Dahrendorf, il criterio geo-politico del «modello di Copenhagen», in base al quale «l’Europa comprende i Paesi europei che hanno aderito ai principi dell’ordine liberale, dello stato di diritto, della democrazia e della convivenza civile»1.

Recenti studi sul “mito dei continenti” dimostrano che i tentativi di far coincidere esattamente ripartizioni delle terre emerse con caratterizzazioni culturali, antropologiche, politiche, sociali, economiche, sono tentativi ideologici, che più che alla geografia appartengono alla “metageografia”. La storia della cartografia dimostra che persino questi confini mentali sono altamente mobili, avanzando o indietreggiando, a seconda delle epoche e delle convinzioni prevalenti in un contesto culturale. E ciò è particolarmente vero per le grandi categorizzazioni, come i concetti di Primo, Secondo e Terzo Mondo; Nord e Sud; Centro, Semiperiferia e Periferia; Occidente, Oriente; “the West and the rest”.
La metageografia è, in fondo, una sorta di "metafisica del mappamondo". Cioè, il risultato della percezione che tutti abbiamo degli altri come "altri".
Anche la metageografia è correlata al mito degli Stati-nazione, nel senso che essa assume che le identità culturali (nazioni) coincidano con entità politiche sovrane (Stati). Questo stesso meccanismo di sovrapposizione è riprodotto, in scala più ampia, per consolidare il mito dei continenti. Si tratta, più in generale, di un mito di ordine, che assume come riferimenti i continenti, gli Stati-nazione ed i blocchi sovra-continentali, come l’idea di Oriente ed Occidente.
Il paradosso è che un continente inizia e finisce esattamente dove "pensiamo" che inizi e finisca. L’Europa del futuro si può concepire solo evitando di cadere nella trappola di una «geografia mentale» del tutto anacronistica2. La visione dei confini tra le culture cambia perché gli uomini cambiano, si incontrano, talvolta si scontrano, ma sempre interagiscono in modo nuovo, diverso, imprevedibile. Deve poter persistere la grande libertà degli uomini e delle società di accantonare, talvolta, le carte geografiche.

Edgar Morin sostiene che non si può definire l’Europa storica attraverso le frontiere geografiche, come non si può definire l’Europa geografica attraverso le frontiere storiche. L’Europa si definisce, essenzialmente, in base ad un principio di organizzazione interna, che è anche la ragione ultima della sua originalità. Questo principio si definisce, sia pure in termini problematici, come "caos" fecondo, come anarchia organizzatrice, che si alimenta di inter-retro-azioni costanti e onnipresenti3.
È particolarmente vero per la costruzione europea ciò che Clifford Geertz ha scritto a proposito di un mondo che non può più essere pensato come un “catalogo” ordinato di culture o come una tassonomia di forme di governo e declinazioni della statualità, ma che dev’essere immaginato come un insieme intricato e non immediatamente comprensibile.

Esaminando con attenzione questo complesso scenario, a me sembra che più che di confini dell’Europa, dovremmo forse parlare di fini dell’Europa. Fini, beninteso, non preconfezionati, ma neanche frutto di un compromesso superficiale di corto respiro. Jacques Delors ha evocato l’ "affectio societatis", che è senz’altro più interessante, come concetto, della definizione di confini geopolitici.
Se l’Europa vuole davvero crescere e non solo allargarsi, deve sapersi responsabilmente ridiscutere. L’ingresso di nuovi membri nell’Unione europea non è un fatto quantitativo, ma qualitativo. Il "processo" e il "progetto" europeo cambiano, senza però snaturarsi, ogni volta che vi è una nuova adesione.
I contenuti di questo progetto vanno discussi, ma soprattutto "condivisi", e cioè non presentati come pre-determinati. In un crocevia di cammini "tutto è da riscrivere". È questa la "nascita dell’ospitalità"4.
Ma c’è un’ulteriore dimensione, che solo "soggetti spirituali", siano essi persone o comunità, possono effettivamente costruire.
È la dimensione della convivialità.
Se con la solidarietà apriamo la porta e ci rechiamo incontro all’altro, se con l’ospitalità condividiamo un luogo comune, anche immateriale, cioè comprendiamo le ragioni dell’altro, con la convivialità facciamo un altro passo: non solo condividiamo un "luogo" ideale, lo spazio, ma anche il tempo, e cioè la memoria, tutta la nostra vicenda umana.
Fare un esercizio di memoria, per l’Europa, vuol dire rivolgere uno sguardo ampio sul suo passato, sul suo presente e, in modo apparentemente paradossale, sul suo futuro. Da questo sguardo essa può cogliere forse il significato della sua esperienza: il difficile apprendistato di essere "relazione". A ben guardare, è proprio questo suo sforzo di "imparare", ma soprattutto "vivere", per così dire, l’unità nella pluralità, e la pluralità nell’unità, il "dono", semplice ed inestimabile, che l’Europa può offrire al mondo.
Non a caso l’avventura europea può essere rappresentata come il passaggio dal dominio della “forza bruta” all’affermazione della “forza gentile” (secondo la bella definizione di Tommaso Padoa Schioppa), che non è violenza, ma fermezza; non è potenza, ma destrezza.

L’Europa degli Stati illimitatamente sovrani ha prima dominato altri continenti e poi distrutto se stessa, trascinando l’intero mondo nella guerra. I mali di cui essa ha sofferto minacciano ora l’ordine mondiale: la corsa alla supremazia delle grandi potenze, la precarietà di una pace fondata sull’equilibrio delle forze, l’illusione pagana di un potere statale assoluto. Proprio per aver sofferto dei propri errori l’Europa ha imboccato la strada della limitazione dei poteri sovrani. E questa è la strada che anche il mondo dovrà percorrere se vorrà evitare di distruggere se stesso. L’Europa potrà contribuire a sospingervi il sistema mondiale degli Stati solo se saprà percorrerla essa stessa, al proprio interno, sino in fondo5.

Più profondamente, la complessità insita nel disegno e nella struttura dell’Europa ci sprona a ripensare la concezione stessa della politica, sia essa locale, regionale, nazionale, internazionale. Occorre umilmente tornare a chiedersi, sulle orme di Hannah Arendt, Was ist Politik?. La risposta della Arendt è in termini problematici: la politica si fonda sulla “pluralità” umana; la politica tratta della comunità e della reciprocità di esseri differenti; la politica nasce, dunque, nello spazio-tra-gli-uomini; la politica si costituisce come relazione.

Si può affermare che l’Europa ha realizzato la reciproca libertà dei popoli attraverso la reciproca libertà degli Stati, tra i quali non vi sono egemonie politiche (contano, ad esempio, nel voto, essenzialmente gli aspetti demografici).
Benché in modo parziale ed incompleto, l’Europa ha favorito anche l’uguaglianza dei popoli, con le politiche di coesione economica e sociale, la libertà di circolazione, la parità di trattamento e il riconoscimento dei diritti fondamentali al di là delle frontiere.
Ma la fraternità dei popoli e degli Stati che sono attualmente membri e quelli che non lo sono, è ben lungi dall’essere una realtà. Mettere in moto la fraternità politica vuol dire credere davvero, in modo "esistenziale", che essa è la chiave per ritrovare il senso ultimo della costruzione europea e per fornire risposte originali alle molteplici sfide poste dall’ampliamento del suo territorio, dalla rivisitazione delle sue strutture, dalla riqualificazione delle sue funzioni.
Realizzare la “fraternità politica” in Europa ed oltre essa, trarre tutte le conseguenze dalla «prossimità» reciproca dei popoli e degli Stati, compirebbe il passaggio dall’Unione Europea, ripettosa di un’estrinseca pluralità, all’unità europea, strutturata su un’intrinseca molteplicità.
Si tratta di attuare un progetto dialogico, ospitale, conviviale e fraterno di un’Europa autenticamente e liberamente unita e al contempo autenticamente e consapevolmente molteplice. Un’Europa ove si compongono, senza fusioni o egemonie, come in una “pericoresi politologica”, strutture, territori, funzioni, identità, culture, comunità, persone, che si ri-conoscono vicendevolmente, nella coscienza della reciproca appartenenza e della reciproca responsabilità.
In questa idea di Europa la diversità culturale, la molteplicità delle identità, delle culture ed anche delle religioni prevalenti o minoritarie non è un problema, ma una risorsa.

1  Ralf Daherdorf, I guardiani europei, «La Repubblica», 1.5.1999.
Cf. Georges Prévélakis, L’Orient de l’Europe: géographie mentale, historie et idéologie, in Elie Barnavi, Paul Gossens (a cura di), Les frontières de l’Europe, De Boeck & Larcier, Bruxelles 2001.
3 Cf. Edgar Morin, Penser l’Europe, Gallimard, Paris 1987.
4 Cf. Edmond Jabès, Il libro dell’ospitalità, Cortina, Milano 1991.
5 Tommaso Padoa Schioppa, Europa, forza gentile. Cosa ci ha insegnato l’avventura europea, Il Mulino, Bologna 2001, pp. 8-9.
 
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