La Tunisia ci crede
Il 17 dicembre 2010 iniziò qui la rivoluzione araba. Le elezioni vinte da un partito islamico. «Abbiamo fiducia», dice il vescovo.
Tunisi. La città brulica di gente, i turisti sono quasi inesistenti, gli autoblindo controllano il centro città. Noto foulard, hijab e persino qualche burqa in quantità decisamente maggiore rispetto al periodo di Ben Ali. I capannelli femminili che passeggiano sono composti da donne velate e altre a capo scoperto, nel rispetto delle rispettive scelte, ma anche segno di una divisione ideologica. Le conversazioni tradiscono una forte tensione, si parla all’infinito di “transizione”, anche alla radio e alla tivù.
I tassisti sono il miglior punto di osservazione, come sempre. Mi carica un ex-pescatore, ex-poliziotto, ex-guida turistica ed ex-disoccupato. La sua Renault è piena di strisci e bozzi, l’interno pare un ricettacolo d’ogni sorta di acari. Parliamo in francese, poi viriamo all’italiano: «Ho tre figli che studiano, debbo pure far vivere la famiglia! – mi spiega –. Quando l’economia va in crisi bisogna darsi da fare. Per questo ho dipinto la mia vecchia auto di giallo e mi sono messo a fare il tassista». Confessa senza vergogna di aver votato per Ennahda, il partito che ha vinto le elezioni per l’Assemblea costituente e che la stampa occidentale guarda con sospetto. Lo definisce «moderatamente islamico» e si paventa un possibile irrigidimento con la riproposizione della shari’a, la legge islamica. «Ma non è vero – precisa il tassista Ahmad –, perché Ennahda è il solo partito di onesti, non legati al passato regime. Gli altri partiti sono tutti corrotti». Metà della popolazione la pensa così. Dopo quarant’anni di una dittatura che assicurava comunque l’ordine, il caos è visto come la peste. Meglio un deficit di libertà e di ricchezza che di tranquillità sociale.
Effettivamente è un po’ schizofrenica la Tunisia di questi tempi. Assapora insolite libertà – oggi persino i poliziotti fanno sciopero –, ma in fondo non sa cosa farsene. Serve tempo per una democrazia di stile arabo, o meglio di una libertà di impronta araba. Non è detto che debba corrispondere alla nostra democrazia parlamentare. I social network affascinano i giovani tunisini, li spronano a conquistare le loro libertà, ma nel contempo spaccano in due le famiglie, aprono nuove strade ma senza mezzi per percorrerle.
Il vescovo dalle idee chiare
All’episcopio di Tunisi, un po’ démodé, incontro il vescovo dei latini, mons. Maroun Lahham, giordano, un organizzatore, un uomo di polso, come si dice. «Sono ottimista di carattere – mi dice –, ma anche per la funzione che ricopro. Sono arabo e ho sempre vissuto nel mondo arabo: quello che capita è un cambiamento verso il meglio. Contro coloro che parlano di autunno o inverno arabo, continuo a sostenere che si tratta di una vera primavera. Anche se la transizione sarà lunga».
L’Europa ha paura della crescita dei partiti islamici: «Nel mondo arabo non si può fare a meno dell’Islam. Ma non si può più collaborare con dittatori che si spacciano come difensori della libertà, come dighe contro l’islamismo. Ora l’Occidente deve collaborare con i governi eletti. Gli islamici vincono ovunque, ma si tratta di partiti moderati, non salafiti o qaidisti».
Gli arabi debbono trovare la democrazia che più gli confà? «La democrazia non è un copia/incolla, non è uno Sheraton in cui le stanze sono tutte uguali, a Singapore come a Stoccolma! L’unica cosa che deve essere uguale è il rispetto della libertà e dei diritti umani. I giovani acculturati che hanno acceso la miccia della rivoluzione non sopportano più le dittature e veglieranno perché non ritornino. Se Ennahda ad esempio toccasse la libertà delle donne, il consumo di vino o la libertà di spostarsi, ecco che la piazza si risolleverebbe».
La Tunisia è il Paese che forse dà più speranza. «È un Paese omogeneo, tutti sunniti, tutti musulmani, pochissimi berberi. Non è un caso che la scintilla sia scoppiata qui, perché c’erano le condizioni giuste: gente istruita, un certo benessere, un eccesso di dittatura nell’ultimo decennio. Ma è anche un caso, perché i tunisini sembravano più rassegnati di altri popoli maghrebini, mentre si sono rivelati i più coraggiosi».
E la Chiesa? «I 22 mila cattolici sono quasi tutti stranieri. Non hanno partecipato direttamente alla rivoluzione, ma hanno formato buona parte della classe più colta del Paese nelle scuole che accolgono seimila studenti l’anno. Abbiamo seguito con gioia e speranza gli eventi».
Da Ennahda, dai vincitori
Ed è così che mi dirigo con non poca curiosità verso la sede di Ennahda, a Mirapolis, che raggiungo con una certa fatica. Nessuno sa dove sia. Persiste ancora la paura atavica dei tunisini, che sanno e non sanno, non dicono e dicono. Ci vorranno decenni perché la paura del controllo asfissiante della polizia di Ben Ali e della sua congrega cessi di influenzare i sonni della popolazione. La sede è un palazzetto di sette piani, modesto. C’è una confusione naturale, come spesso accade nei Paesi arabi. Le donne, tutte con l’hijab, svolgono funzioni subalterne, mentre le barbe ci sono ma ben tagliate, mai come dai salafiti o dai wahhabiti. Nella hall un gruppo di disabili parla con un deputato dell’Assemblea costituente, incaricato del welfare. Gridano tutti, ma poi mi rendo conto che alla fine si capiscono. Vogliono che nel programma del partito venga inserito un nuovo punto che riguarda proprio la tutela dei disabili.
Salgo i piani, accompagnato da un brav’uomo, si chiama Toufik, che è un militante della prima ora di Ennahda: negli ultimi 23 anni non ha lavorato per via della sua militanza politica. Laureato in Francia, è entrato nell’esercito da cui, 24 anni fa, fu espulso e incarcerato. Impossibile poi trovare un lavoro. Era schedato. Ora che è segretario dell’ideologo del partito, Zied Dalaoutli, guarda con soddisfazione il momento della vittoria, ma anche con una certa apprensione, perché vede arrivare nel partito una fauna umana poco credibile: arrivisti e affaristi.
Di riunioni ce ne sono tante nel palazzetto, a geometria variabile e con ordini del giorno improvvisati. C’è una delegazione algerina ancora clandestina, e poi arrivano dei libici, non si capisce bene se siano pro-Gheddafi: vogliono asilo politico. E poi il tè alla menta e il caffè, che circolano ovunque.
«Non imporremo leggi religiose»
Bisogna cercare di capire. Mi aiuta Cheker Chorfi, professore di cultura islamica, un intellettuale che ha fatto molto per Ennahda, pur non volendone far parte. Paura del futuro? «Abbiamo una storia comune in Tunisia, inutile temere. Anche le cancellerie europee stanno dando fiducia al nuovo corso tunisino».
Timore della shari’a? «La legge islamica, nel suo senso profondo, è giustizia, uguaglianza e libertà. Non è una dottrina, ma il frutto della religiosità del popolo. Noi crediamo a uno Stato civile, alla democrazia, ai diritti dell’uomo, non imporremo leggi religiose non solo ai turisti, ma nemmeno ai tunisini. Le 365 proposizioni di Ennahda non sono leggi islamiche, ma ispirate alla shari’a».
Europa? «Che vi sia cooperazione aperta alle nostre idee, senza voler imporre le vostre idee! Che si investa insieme, senza più sfruttamento delle risorse in spirito coloniale». Turismo? «Dobbiamo svilupparlo, aggiungendo al turismo delle spiagge anche quello culturale e religioso, eliminando il turismo sessuale. Ma bisogna anche che la nostra economia sia equilibrata, non basata solo sul turismo. Si potrà continuare a bere vino! Non siamo filo-iraniani e nemmeno filo-turchi, anche se la democrazia turca è molto interessante e ispirata». Nemmeno Ennahda sarà integrista? «Il partito ha avuto 30 mila prigionieri e 60 martiri. Io stesso sono stato torturato e imprigionato. Non ha finanziamenti sauditi e tiene lontani gli imam».
Religioni e dialogo interreligioso? «Dobbiamo legarci tra fedeli ebrei, cristiani e musulmani per servire il bene comune. Dobbiamo togliere il dialogo dalle mani di preti, rabbini e imam, e metterlo nelle mani degli esperti, per avere una visione laica e popolare del dialogo. Gli studiosi sono più obiettivi, più neutrali, più laici, anche se sono credenti».
Libertà
Ancora cercare di capire. Questa volta con padre Ramòn Echeverria, padre bianco, tra i più lucidi uomini di Chiesa. È vicario generale della diocesi. Un’altra Tunisia? «La gente sa che almeno per un periodo è stata libera. E sa che Ennahda è un partito ancora non corrotto, che ha sofferto e che si è proposto già organizzato, e quindi atto a riempire il vuoto di sicurezza creatosi nel Paese. Inoltre il partito dà l’impressione di difendere quei valori tradizionali che la gente non vuole perdere».
Ma di che libertà si tratta? «Per i tunisini oggi vuol dire semplicemente “far quello che mi pare”. Se invece si tratta di far le cose bene, bisogna ancora che sia la polizia a costringerti. Non c’è nesso tra libertà e responsabilità, per cui a tanta gente una libertà siffatta fa paura, vuole una “libertà controllata”, quella che Ennahda sembra poter assicurare. Se liberté indica la libertà nella responsabilità, all’europea, in arabo si usa la parola hurrya, che vuol dire “fare quello che mi pare”: i tunisini spesso mescolano i due significati».
Cosa c’è di comune tra le diverse rivoluzioni arabe? «Chissà… Ho però l’impressione che sia la “generazione Facebook”. Non solo coloro che l’adoperano, ma anche coloro che hanno perso posizioni ideologiche acquisendo valori più occidentali (e talvolta persino cristiani), praticandoli seppur senza averne coscienza. Sono contro la corruzione e per la legalità, ma non sanno organizzarsi se non nell’estemporaneità della protesta. All’inizio della rivolta nessuno parlava di rivoluzione, finché non è entrato in gioco Fb. Ma ora ecco i “religiosi”. Fb riappare, solo quando si rimette in questione la rivoluzione».
E le radici più profonde? «Povertà, corruzione, malcostume, mancanza di libertà personali, ingiustizia. Fino a poco tempo fa era normale che in una società vi fosse una chiara distinzione tra ricchi e poveri. La mondializzazione ha reso universale il bisogno consumista: si è cioè costretto la gente a consumare, a migliorare il proprio livello di benessere materiale, con telefonini, auto e vestiti. Finché il fenomeno è sfuggito di mano al potere costituito. In più in Tunisia il partito Rcd di Ben Ali si era troppo ingrossato, e tutti volevano trarre benefici materiali dall’appartenenza partitica. Ma la torta era diventata troppo piccola per accontentare tutti. Il partito non aveva ideologia e quindi è imploso».
Vigilanza
All’università statale di Manouba ieri c’è stata un’azione dimostrativa di certi studenti salafiti che hanno preso in ostaggio il decano della facoltà di Lettere per poi manifestare con un sit in nel suo ufficio. Fuori dall’ufficio, tra gli studenti Fb che hanno indetto una contro-manifestazione, Ezir li contesta. Mi dice: «Ho partecipato a tutte le manifestazioni, dall’11 dicembre al 14 gennaio, quindi sono uno di quelli che hanno cacciato Ben Ali. Ma la ramificazione del suo potere era tale che ancora non ce ne siamo liberati. Tocca continuare a essere vigilanti».
Piccolo glossario
Wahhabismo Movimento politico-religioso integrista nato nel 1744 in Arabia da Ibn Abd al-Wahhab, che auspica il ritorno alla purezza originale dell’Islam.
Salafismo Movimento per il “ritorno agli antenati”, fondato alla fine del XIX secolo da Abduh e al Afghani. Cercava una via di mezzo tra modernismo e tradizione. Ora si sposta su posizioni integriste.
Shari’a È la fonte del diritto musulmano. Contiene norme immutabili e altre più mobili, elaborate con contaminazioni del diritto consuetudinario locale.
Hijab Velo islamico che copre solo i capelli, e non il volto.
Burqa Velo islamico che copre anche il volto. Spesso si tratta di una lunga tunica che arriva fino ai piedi.