La Trasfigurazione di Raffaello

Una guida per comprendere il senso e il valore di un’opera d’arte, sempre attuale, legata ad un periodo cruciale della storia dell’umanità e della chiesa

Le migliaia di turisti affannati che salgono ogni mattina ai Musei Vaticani offrono il loro pellegrinaggio all’arte secondo il modello – o la religione – oggi obbligatoria: vedere fotografare e fuggire.  E poi poter dire: “Sono stato a Roma ed ho visto la Cappella Sistina in Vaticano”. Scorrono perciò rapidi davanti alle opere esposte nella Pinacoteca. Qualcuno si ferma di fronte alla Trasfigurazione di Raffaello: è così bella e seducente che è costretto a dedicarle almeno qualche secondo.

E’ un vero peccato, perché la grande tavola ad olio è uno dei capolavori dell’ingegno umano e, diciamolo pure, della fede cristiana. Non merita davvero uno sguardo di corsa, anzi consiglierei a chiunque venga a Roma e si rechi in Vaticano, per prima cosa di fermarsi di fronte a due capolavori: l’Apollo del Belvedere e appunto la tavola di Raffaello. L’Apollo perché riassume in sé l’ideale di bellezza del mondo classico, cioè precristiano: un ideale che, cristianizzato nel Rinascimento, dà forma sia al lavoro di Raffaello che al Michelangelo della Sistina.

Raffaello ha lavorato alla sua opera – l’ultima- dal 1518 al 1520, su commissione del cardinale Giulio de ‘Medici, futuro Clemente VII per la cattedrale francese di Narbonne. Il cardinale fiorentino era un uomo colto e scaltro: mise infatti in competizione Raffaello e il veneziano Sebastiano del Piombo, amico del rivale Michelangelo, che avrebbe dipinto la Resurrezione di Lazzaro, oggi finita a Londra, alla National Gallery.

Una nota interessante: il cardinale, cugino di Leone X, era l’anima del processo che si stava tenendo in quegli anni contro Lutero, per cui le due opere, anche a causa del loro soggetto, sono da considerare come una decisa testimonianza di fede sicura in Cristo, professata dalla contestata chiesa di Roma.

Raffaello, a differenza di Sebastiano, lavorò molto lentamente e con impegno – ne restano diversi disegni -, tanto che quando morì, il 6 aprile 1520, l’opera non era del tutto terminata.  Perciò, lungo i secoli, gli studiosi hanno pensato che la parte superiore fosse autografa e quella inferiore eseguita dall’allievo Giulio Romani sui disegni del maestro. Oggi, dopo attente analisi, sappiamo che non è così: la tavola è autografa in ogni parte, anche se non è chiaro se al momento della morte del pittore egli la considerasse compiuta o meno. Una parte di incertezza dunque rimane.

Raffaello legò insieme – certo dietro suggerimento dei teologi curiali – la Trasfigurazione, in alto, e il miracolo dell’epilettico, in basso, come narrati nel vangelo di Matteo. In alto, la gloria del Cristo, che si manifesta ai discepoli prefigurando la sua resurrezione, di sotto la confusione agitata di una folla con altri discepoli incapaci di guarire il fanciullo malato.

A ben vedere ci sono due stili narrativi molto diversi, che corrispondono alle due vie tentate dal pittore nell’ultima fase della vita: quella poetica e quella storica, nell’impianto di una sacra rappresentazione teatrale densa di emotività. Così la teofania del Cristo bellissimo – una interpretazione dell’Apollo classico – candido tra i vapori, più grande (fisicamente e spiritualmente)di Mosè ed Elia in volo con lui, rappresenta la vetta dell’estasi mistica: Cristo presente fra due o tre è luce, splendore, verità, legame tra terra e cielo. Ma è anche il pantocratore e il crocifisso – le palme della mani aperte rimandano ad entrambe le iconografie-, sovrastante con la divinità i tre discepoli storditi. La dimensione terrestre infatti di fronte alla rivelazione di un altro mondo, quello dello spirito, è confusa, così come l’orizzonte vespertino a destra, un paesaggio veneto, è  indistinto. Cristo, avvolto dal vento dello Spirito (la brezza, di cui parla la storia del profeta Elia nel Libro dei Re) fa brillare sul suo volto radioso la luce che brilla sul viso del Padre, nascosto dalla nube: è il signore e l’uomo perfetto. L’ armonia di luci e colori, morbidi, trasparenti e gonfi, emana la poesia raffaellesca dell’equilibrio rinascimentale più puro, dell’unità fra divino ed umano dentro il blu di un cielo dal sapore metafisico.  Quella di cui Raffaello aveva dato un saggio nel notturno della Liberazione di san Pietro nelle Stanze, a cui si ricollega come ispirazione.

Al di sotto il regno di questo mondo diviso e privo di fede. In guerra, se non altro di sentimenti, fra i discepoli increduli e gli astanti urlanti. Un teatro drammatico, la storia vista da Raffaello come violenza e disunità. Di qui i colori lucidi, smaltati, le pose contorte, il chiaroscuro violento, l’atmosfera di retorica sublime in un moto perpetuo di luci che brillano ovunque, dallo specchio d’acqua ai vestiti, dai volti alle fronde. Quando manca Cristo nel mondo ,manca la pace. Difficile non vedervi un’eco delle accese discussioni in casa vaticana sul caso Lutero, gestite dal cardinale Giulio: il 1520 è infatti l’anno della minaccia di scomunica a Lutero con  bolla Exsurge Domine.

Lo stile raffaellesco qui segue un’altra direzione, riallacciandosi al “pittore di storie” quale era diventato il pittore dalla Stanza di Eliodoro alle decorazioni  della Villa Farnesina a Roma.

Perciò la grande tavola appare come un discorso incompiuto sotto l’aspetto stilistico, in bilico fra opposte direzioni: fosse vissuto di più Raffaello, oggi lo sapremmo. Ma dal punto di vista sia spirituale che poetico, essa appare di una immensa bellezza e di una sconcertante attualità. Bellezza, perché il volto del Cristo raffaellesco è diventato ormai l’icona del Messia, segno che il pittore è stato davvero  illuminato ed illuminante a cogliere l’unità tra natura umana e divina del Redentore e ad innalzarlo  con tanta  corale armonia dentro l’universo, presente e futuro, nel tempo e nel senza tempo.  Attualità, perché il richiamo all’unità sotteso dal committente vale anche oggi sia per la Chiesa come per l’umanità.

 

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