La trappola del “lavoro povero”

Un dialogo con l’economista Michele Raitano sulle cause delle diseguaglianze in Italia
Lavoro povero. Intervista a Michele Raitano

Il contrasto della povertà è una sfida sempre aperta e difficile da raggiungere, nonostante le migliori intenzioni dei governi. Ha fatto sorridere o indispettire, nel 2018, l’esultanza dei ministri 5 stelle sul terrazzo di Palazzo Chigi raggianti per aver raggiunto l’obiettivo di aver “abolito la povertà” grazie all’introduzione del Reddito di cittadinanza (RdC). È, poi, arrivato il Covid-19 a mietere vittime, con l’Istat a certificare l’aumento della percentuale di residenti nel nostro Paese in condizioni di povertà assoluta, passati dal 7,7% del 2019 al 9,4% del 2020: oltre 5 milioni e 600 mila persone.

Senza il RdC il bilancio sarebbe stato più gravoso, ma il superamento delle diseguaglianze ha bisogno di una visione adeguata alla complessità di tale pretesa. Ne parliamo con Michele Raitano, professore associato di Politica economica nella facoltà di Economia e commercio dell’università La Sapienza di Roma.

Come valutare il RdC introdotto in Italia?
È una misura che va considerata ormai stabile e necessaria ma che, per come è stata costruita, presenta dei problemi che vanno superati nel senso di una maggiore equità. Ad esempio, andrebbero eliminati i vincoli di accesso vessatori imposti agli immigrati, vanno riviste le scale di equivalenza che penalizzano i nuclei familiari numerosi.

E come valuta l’introduzione, ora, dell’Assegno unico universale per i figli?
È una misura che ha il pregio di andare nella direzione giusta della riduzione delle diseguaglianze e di essere universale, cioè per tutti, non solo per alcune categorie lavorative. Il reale impatto lo vedremo con la sua configurazione definitiva a partire dal 2022, da considerare assieme al RdC (per evitare la beffa che per i più bisognosi l’Assegno unico si accompagni a una riduzione del RdC) e all’annunciata riforma fiscale. Introdurre l’assegno unico per tutti, dovrebbe portare ad esempio anche ad eliminare le forme di fiscalità di vantaggio previste, finora, solo per alcuni. In Italia abbiamo il grande problema di una forte progressività della tassazione dei redditi medio-bassi con aliquote che sbalzano dal 28 al 38% e di un’erosione continua dalla base imponibile dell’Irpef – tramite deduzioni e fiscalità separata – che generalmente favorisce i più abbienti.

E sul fronte delle politiche attive?
Bisogna distinguere il RdC come strumento di contrasto alla povertà dalle politiche attive intese all’inclusione sociale. Come insegnano i teorici della politica economica, ogni obiettivo deve avere uno strumento autonomo. Non si può quindi pensare che il RdC, da solo, serva per contrastare la povertà, incentivare il lavoro e favorire l’incrocio fra domanda e offerta di lavoro.

Cosa ne pensa della tesi diffusa che vede il RdC come un disincentivo a cercare davvero lavoro?
Sono affermazioni che non tengono conto della realtà. Il RdC, nel migliore dei casi, per un singolo è pari a 500 euro (più, eventualmente, fino a 280 euro per il sostegno agli affitti) e proporzionalmente sempre di meno per i componenti di una famiglia. Le polemiche puntano ad eludere il vero problema costituito da un mercato del lavoro inadeguato, dove permangono aree di lavoro nero e irregolare e salari in molti casi inaccettabilmente bassi.

Non è forse la conseguenza di scelte compiute anche dalla pubblica amministrazione che ha esternalizzato il lavoro a società private per abbassare i costi?
È così. Il pubblico è stato uno dei promotori del lavoro povero. Basta entrare in un ospedale per rendersi conto che il bravo infermiere in organico non dipende dalla struttura dove lavora ma da società esterne (spesso cooperative) che lo pagano molto meno di un dipendente pubblico e in base a contratti che solo per alcuni mantengono le tutele del lavoro dipendente. Ci vuole una svolta verso un’equità orizzontale: devo trattare allo stesso modo chi svolge le medesime mansioni.

Come superare questa forma di segregazione interna ai luoghi di lavoro che produce una rottura profonda del legame sociale?
A questo regime di apartheid non si può rispondere, come chiedono alcuni, peggiorando le condizioni per tutti, ma facendo l’esatto contrario. Far passare l’idea che bisogna pagare poco il lavoro diventa un incentivo a disfarsi dei dipendenti non qualificati ai primi accenni di crisi.

Non servono a questo i 12 miliardi di euro stanziati nel Pnrr per le politiche attive?

È questa la sfida vera che ci attende, non limitandoci, come finora è stato fatto, a prevedere solo sgravi contributivi e fiscali a favore delle imprese che assumono. Dovremmo avere, invece, un’idea di dove e come vuole muoversi il sistema produttivo italiano per investire in quella direzione e far incontrare domanda e offerta di lavoro di qualità. Le politiche attive del lavoro sono un concetto astratto senza una chiara visione delle scelte di politica industriale di lungo termine. Il mercato si muove secondo logiche di breve periodo, dettate dalla massimizzazione dei profitti riducendo i costi, mentre lo Stato ha un ruolo regolatore e indirizzatore con il vantaggio di poter puntare sull’efficienza dinamica di lungo periodo.

 

BOX

Lavoro povero, part time involontario e “contratti pirata”

 

«Il fenomeno del “lavoro povero” nasce dalla correlazione di tre fattori di svantaggio. Innanzitutto esistono bassissime paghe orarie che vanno, quindi, innalzate con l’introduzione di un salario minimo che – al di là del ruolo meritorio della contrattazione collettiva, che va anzi rafforzata – deve valere per tutti e sotto il quale non si può scendere.

È molto diffuso il part time involontario, con eventuali ore lavorate in più non retribuite regolarmente o comunque in nero. È difficile, ma necessario, intervenire sui tempi di lavoro, dato che il part time, praticamente inesistente nel 1985, riguarda oggi, nel nostro Paese, il 30% dei dipendenti, con il picco del 50% tra le lavoratrici. Dati evidenti di una scelta non volontaria o non rispondente alla verità delle ore lavorate.

Infine, si registra un’estrema frammentarietà di periodi lavorativi non continuativi. Un quadro aggravato dalla pandemia perché la cassa integrazione, l’indennità di disoccupazione di dipendenti (NASpI) e collaboratori (Dis-Coll) sono proporzionate alla retribuzione formalmente dichiarata. Un salario giusto è una garanzia anche per le prestazioni del welfare in caso di eventi imprevisti.

Bisogna intervenire sulle regole della contrattazione collettiva e aziendale perché in Italia esistono numerosi “contratti pirata”, sottoscritti da sindacati di comodo e non rappresentativi, che prevedono retribuzioni inferiori anche del 40% per la stessa mansione».

 

Michele Raitano appartiene alla seconda generazione della scuola di pensiero economico che si riconosce nell’insegnamento di Federico Caffè. Fa parte del comitato scientifico dell’Alleanza contro la povertà in Italia.

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