La transizione energetica presa sul serio, il caso Sardegna

Passa dalla Sardegna la possibilità di una vera transizione ecologica basata sul ricorso alle fonti rinnovabili di energia. Quali sono gli ostacoli che impediscono di realizzare questo importante obiettivo strategico  per il nostro Paese?  Analisi e approfondimenti nell’intervista a Graziano Bullegas e Mauro Gargiulo, di Italia Nostra Sardegna
Sardegna Foto Pixabay

La transizione ecologica comporta scelte strategiche importanti sul piano delle fonti energetiche e la Sardegna rappresenta, in Italia, un caso esemplare per capire l’orientamento reale che il governo prenderà per realizzare il Pnrr secondo le indicazioni definite a livello di Ue.

Abbiamo già intervistato il professor Giacomo Cao, amministratore del Crs4, centro di eccellenza nel campo della ricerca in Sardegna, secondo il quale l’intera isola presenta le caratteristiche per realizzare l’autonomia energetica facendo ricorso alle sole fonti rinnovabili. Un fatto che, se realizzato davvero, rappresenterebbe un notevole vantaggio competitivo sia per l’economia che per l’equilibrio ambientale di un territorio che ha subito, nel tempo, troppe aggressioni. Dalla cementificazione delle coste alla gestione irresponsabile dei poligoni militari senza dimenticare la possibilità di diventare sede per lo stoccaggio delle scorie radioattive delle centrali nucleari dismesse.

Cosa impedisce a questa isola dalla forte identità culturale di diventare la punta più avanzata del nostro Paese nel campo delle energie rinnovabili?  Abbiamo, perciò, continuato ad approfondire quanto emerso nell’intervista al professor Cao con Graziano Bullegas e Mauro Gargiulo, rispettivamente presidente e delegato per le questioni energetiche del consiglio regionale di Italia Nostra Sardegna.

L’associazione è stata di recente protagonista, assieme al sindacato Usb e ad Assotziu Consumadoris Sardigna, di una importante vittoria davanti al Consiglio di Stato contro le pretese della fabbrica Rwm che intendeva estendere l’area della sua attività produttiva senza avere assoggettato a preventiva valutazione di impatto ambientale i nuovi impianti come previsto per la fabbricazione di armi ed esplosivi come quelle prodotte dalla società controllata della tedesca Rheinmetall che nel Sulcis iglesiente produce armi pesanti destinate al mercato internazionale.

Passare l’esame del massimo organo amministrativo italiano, come sa ogni tipo di associazione della società civile, comporta un grande margine di incertezza ed espone a notevoli spese in caso di perdita in giudizio.  Bisogna essere, perciò, ostinati e convinti della buona causa per esporsi ad un contenzioso nei confronti di una grande multinazionale. Cerchiamo quindi di capire con i rappresentanti di Italia Nostra Sardegna il loro parere sull’ emblematica questione energetica di una delle due grandi isole italiane poste nel Mar Mediterraneo.

Se come afferma il direttore del Crs4, la Sardegna può essere l’esempio della autosufficienza energetica basata su fonti rinnovabili, cosa si oppone a tale possibile scenario nell’Isola?
Partiamo dai numeri. I dati Terna (società italiana operatrice delle reti di trasmissione dell’energia elettrica controllata da Cassa Depositi e Prestiti) del 2020 ci dicono che le Rinnovabili in Sardegna soddisfano il 41% della richiesta di energia elettrica.  Se si considera il consumo di tre settori aggregati, quali agricoltura, servizi e residenza (pari al 65% del totale), le rinnovabili potrebbero oggi soddisfare il 75% di un tale consumo. Appena il 25% ci separa dunque dalla parità energetica con le rinnovabili per i tre settori aggregati.

Resterebbe escluso il settore industriale che, da solo, impegna il 45% dell’intera produzione elettrica isolana. Un’incidenza così rilevante non è conseguenza della capacità produttiva o del numero delle aziende, ma della concentrazione in poli fortemente energivori.

Come si può colmare questo divario?
La differenza potrebbe essere ricoperta impedendo il proliferare indiscriminato dei grandi impianti fotovoltaici ed eolici, con conseguenti impatti ambientali e paesaggistici non sostenibili, e ricorrendo a modelli di produzione diffusa ed autoconsumo, già presenti con il fotovoltaico domestico.

Un ulteriore contributo potrebbe essere poi fornito dalla diffusione di quelle forme associate quali sono le Comunità energetiche e l’Autoconsumo collettivo (vedasi il recente decreto legislativo n.199 del 2021 sulla promozione dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili).

Le rinnovabili trovano infatti applicazione ottimale in un sistema produzione-consumo che si ispiri al principio della cooperazione produttiva e della collettivizzazione dei consumi. Si tratta, dunque, di un percorso virtuoso che ha come esito finale la democrazia energetica, non un laissez-faire alla speculazione per l’accaparramento delle fonti. Le condizioni, perché si porti a compimento una tale svolta, sono presenti nel contesto sociale sardo a bassa densità demografica e con forte coesione interna.  Inoltre un tale modello, se dotato di adeguati storages (sistemi di accumulo, ndr) potrebbe andare a costituire una risorsa economica per le comunità da destinare a fini sociali.

Ma esistono casi concreti del genere già in funzione?
Certo. In Sardegna ci sono alcuni comuni, come Berchidda, Benetutti, Villanovaforru ed Ussaramanna, che hanno intrapreso un tale percorso virtuoso. Ma vi è ancora da aggiungere al novero delle possibilità, l’apporto dei potenziali parchi fotovoltaici ed eolici da installarsi in quelle aree definite idonee dalla normativa citata (cave dismesse, aree agricole improduttive, zone industriali, ecc.) che il MITE (Ministero per la transizione ecologica) si appresta ad individuare con uno specifico decreto.

Come cambia il discorso con l’energia richiesta dal settore industriale?
Nel territorio sardo è presente un’industria fortemente energivora (per quasi metà della produzione) ed inquinante che condiziona sia l’attuale modello di produzione elettrica (articolato sui tre poli di Porto Torres, Portoscuso e Sarroch), sia quello di distribuzione, determinando criticità nella rete. Peraltro in un tale tipo di industria la produzione di energia elettrica dovrebbe costituire un asset strategico intrinseco al processo industriale e con esso intimamente connesso. Non si comprende perciò il pesante condizionamento che viene esercitato nei confronti della produzione elettrica da rinnovabili e la persistente richiesta di scaricarne i costi non sostenibili sulla collettività. Le contraddizioni derivanti da un tale assetto sono la causa principale della mancata chiusura delle Centrali a carbone, per ora rinviata al 2030.

In questi casi, come in altre situazioni simili nel Paese, si ricorre al metano che viene definito un fonte di transizione per il passaggio dal carbone alle rinnovabili. Cosa accade in Sardegna?
Pensiamo che sia proprio il metano a giocare un ruolo determinante nel ritardare la possibilità di arrivare all’obiettivo realizzabile di un’isola free carbon (libera dal carbonio). Nonostante il dissenso delle associazioni ambientaliste, il Piano energetico ed ambientale sardo (PEARS 2015) individuava tale combustibile fossile come fonte di transizione. Ne è da allora scaturito un duro confronto con lo Stato sulla mancata realizzazione delle infrastrutture (con il coinvolgimento della Snam) e sulla determinazione dei prezzi al consumo ancora oggi irrisolto. Il metano è un gas inquinante e climalterante il cui utilizzo appariva, già all’epoca, irrazionale per gli incolmabili ritardi accumulati dall’Isola. Sussistevano dunque inoppugnabili elementi ostativi che suggerivano di accelerare la scelta radicale dell’elettrificazione dei consumi. Gli stakeholders delle fossili hanno però perseverato nell’azione lobbistica all’interno del Palazzo, al punto che ancora oggi, ormai a ridosso dell’abbandono delle fonti fossili e con il prezzo dei gas alle stelle, la Regione Sardegna si ostina a non voler rivedere le proprie posizioni.

 

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