La tranquillità di Hopper

Esposte a Roma le tele dell’artista americano. Un rassegna unica su un grande protagonista del ventesimo secolo.
Hopper

Non avesse fatto il pittore sarebbe diventato un regista del cinema. La costatazione emerge osservando le tele di Edward Hopper, esposte a Roma fino al 13 giugno. Ovviamente, non un regista di film d’azione, piuttosto uno di quelli che amano interni o esterni ordinati, silenziosi, ben colorati e ben disegnati. E’ una interpretazione della realtà così come ce la fa vedere il pittore, un po’ come il Caravaggio.

 

E’singolare poi che Roma ospiti nello stesso periodo due rassegne di artisti simili per amore alla realtà quotidiana, seppur diversissimi come temperamento e risultato estetico. La “donna alla macchina da cucire” (Girl at Sewing Machine), 1922, ricorda, non da lontano, la Merlettaia di un Vermeer o se si vuole anche una Maddalena caravaggesca: stessa posa calma, identico porsi di fronte alla luce, medesimi colori sobri e caldi, dati a pennellate distese. Ma Hopper di nuovo, e di suo, ha qualcosa che è tipicamente americano: il culto del lavoro. La donna, di cui nemmeno s’intravede il volto di profilo, chiusa dalla massa di capelli, cuce e sta davanti alla macchina come fosse un altare laico, contenta della sua operosità. La luce dalla finestra è azzurra come il cielo, quieta, laboriosa anch’essa.

 

Dall’intimità di una stanza alla visione della natura. “I granai del Cobb e case in distanza” (Cobb’s Barns and Distant Houses), 1933, ci portano in aperta campagna, tra le ondulazioni distese al sole, dipinte a larghe falde e a tinte piene. Un mondo immobile, sacro come il lavoro che ci è sottinteso. Un paesaggio che potrebbe sembrare monotono, ma per Hopper non è tale: i granai dai tetti rossi o arrugginiti sono postazioni tranquille della fatica e del raccolto, segno di una civiltà operosa. Ad Hopper nulla sembra annoiarlo, quello che per altri artisti avrebbe potuto essere un semplice squarcio paesistico per lui diventa il protagonista del quadro. Le cose gli interessano quanto le persone, perché è la vita che gli importa.

 

Certo, le suggestioni dell’arte europea non mancano nella sua opera. Confrontando ad esempio il “Paesaggio urbano” di Mario Sironi (1920) col suo “Manhattan Bridge Loop” del 1928, si osserva come il rapporto tra i due artisti sia più stretto di quanto si possa immaginare, almeno nello spirito d’osservazione se non nell’uso scenografico e si direbbe da quinta teatrale della composizione. Hopper è stato in Europa, e ha colto molto, ma è rimasto sè stesso, anche quando parla dei sentimenti.Parrebbe strano che un pittore di teatri urbani, di bar, di pompe di benzina, di granai sia capace di sondare l’interiorità, senza rimanere in superficie. Ma l’”Escursion into Philosophy”(1959) con l’uomo seduto sulla sponda del letto in cui giace riversa una sagoma di donna, non è solo un tocco di erotismo provinciale, ma molto di più. La luce dorata che entra dal cielo sempre azzurro e fa della stanza quasi una domus rinascimentale di spazi e campiture luminose, crea un senso non di appagamento ma di riflessione, come se l’uomo pensasse su quel che c’è stato poco prima: amore o non amore?

 

Hopper allude, non narra e non indaga. Le sue storie sono pacate, come quelle dei registi degli anni quaranta-cinquanta, che raccontano vicende comprensibili certo, ma non irrilevanti. Hopper, descrivendo la vita come la vede, lascia al colore e ai “piani-sequenza” delle scene il compito di dire anche quello che, a prima vista, non sarebbe il caso di raccontare. Senza batter ciglio, senza un giudizio. Come la sua luce chiara.

 

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