La tragica incertezza egiziana
Gli ultimi tragici sviluppi della precaria situazione dell’Egitto scorrono sui teleschermi di tutto il mondo. Negli ultimi due giorni è stato difficile riuscire a seguire in tempo reale quanto sta avvenendo. Ora con il coprifuoco e con lo stato di emergenza dichiarato dall’esercito si cerca di fare un punto, ma la situazione resta ad altissima tensione. Abbiamo cercato di tenerci in contatto, per quanto possibile, con le nostre fonti nella capitale egiziana, che ci hanno tenuti informati sia del susseguirsi degli eventi che della difficoltà di decifrare un futuro molto nebuloso e con grandi rischi per tutto il Paese.
«Ovviamente – ci spiegano – gli avvenimenti di questi giorni debbono essere letti nel contesto di quanto avvenuto dal 30 giugno in poi. Allora il popolo era sceso nelle strade, dimostrando contro il presidente Morsi, eletto democraticamente l’anno precedente (pur con delle incognite sulla regolarità del voto), ma che milioni di egiziani non volevano più come loro capo di Stato. Tale dimostrazione si era ripetuta, in maniera ancora più forte e con folle ancora più oceaniche, il 26 luglio».
Nello stesso tempo, i Fratelli Musulmani hanno insistito per un ritorno del presidente, sostenendo che era il primo capo di Stato eletto democraticamente in Egitto. «Si è cercato un dialogo fra coloro che da fine giugno avevano preso in mano il potere ed i sostenitori di Morsi. A fronte della loro richiesta di un ritorno del presidente esautorato – aggiungono le nostre fonti – c’è stata la proposta del nuovo governo di partecipare al processo politico che esercito e altre componenti del Paese avevano avviato il 30 giugno. Ciò che si desiderava evitare era che il potere fosse gestito da un’unica componente politica. Le trattative, con le la mediazione anche di Paesi stranieri – Stati Uniti ed Europa – sono durate sei settimane, mentre i sostenitori di Morsi hanno continuato a dimostrare in due piazze per ottenere un suo ritorno».
In questo lungo periodo si è assistito ad una progressiva polarizzazione, che ha accresciuto la tensione fra le due anime del Paese.
«Da tempo – ci dicono dal Cairo – erano stati invitati i dimostranti ad abbandonare la piazza di Rabia el Adawiat e, prima di iniziare lo sgombero, è stato preannunciato che le forze dell’ordine avrebbero liberato la zona, chiedendo a tutti di lasciare pacificamente le località occupate. Si è fatto uso di volantii lanciati da elicotteri che sorvolavano le piazze e di altoparlanti. Si è lasciata libera una strada per permettere il passaggio a coloro che avrebbero voluto abbandonare le piazze. Un percorso utilizzato, ma purtroppo solo alla fine delle operazioni militari e dopo che molti erano caduti».
Dalla capitale egiziana confermano che «è difficile stabilire chi abbia iniziato a sparare. Un giornalista di Euro News presente ai fatti ha dichiarato che i primi spari sono partiti dalla piazza di Rabia el Adawiat. Uno dei primi due a perdere la vita è stato un generale della polizia. In tutto la polizia ha avuto 43 morti tra cui due generali». Tutto questo ci dice quanto sia stata dura la battaglia, nel corso della quale non sono stati risparmiati colpi da una parte e dall’altra.
Le cifre complessive dei morti e feriti che sono state diramate arrivavano fino a ieri a 525 morti (202 a Rabia el Adawiat, 83 a Anahda, gli altri nelle varie città dell'Egitto) mentre i feriti sono 3.717.
Le nostre fonti ci raccontano che, «senza dubbio gli scontri sono stati molto violenti, come si poteva vedere in diretta alla televisione. Dimostranti hanno attaccato vari commissariati di polizia ed edifici governativi. Anche i cristiani sono stati oggetto di violenza per cercare di creare un clima di odio fra musulmani e cristiani». Finora sono stati bruciate almeno 23 chiese in varie città, di cui alcune antichissime, che la tradizione fa risalire ai primi secoli. Fra queste il Monastero della Santa Vergine di Anba Abra’am. Sebbene non sia più usata come monastero, l'area comprende tre chiese ed alcuni centri sociali che assistono la gente dei villaggi. È stata bruciata anche la chiesa copto-ortodossa di Sohag, a 460 chilometri a sud del Cairo, dove ha sede il vescovo copto-ortodosso della regione. Si sono registrati vari attacchi anche nella regione di Minya e in villaggi di diverse parti del Paese.
Attualmente, dopo l’evacuazione dei dimostranti dalle due piazze, non ci sono più raggruppamenti stabili e la situazione generale, ci confermano, è, ora senz’altro più calma. Ci sono stati anche il 15 agosto attentati, ma tutti sono ora preoccupati di quanto succederà oggi. È venerdì, giorno di preghiera, e potrebbe succedere che si approfitti dell’assembramento per creare tensioni e scontri.
«Siamo coscienti – ci dicono – che è impossibile prevedere il futuro del nostro Paese. Molti temono che abbia inizio un periodo di attentati e che l’Egitto possa precipitare in una situazione simile alla Siria. Ovviamente si spera in una soluzione diversa».