La tragedia di Peshawar vista dalla stampa pakistana
Abbiamo tutti negli occhi e, forse ancora di più nel cuore, le immagini raccapriccianti di ragazzini e teen-agers ammazzati senza pietà nella scuola di Peshawar, che per certi versi è diventato un angolo delle nostre città e dei nostri Paesi. Immagini che hanno riavvicinato mondi lontani e riunito l’opinione pubblica mondiale. L’orrore è grande, condiviso da tutti ed in tutto il mondo. Unanimi le parole di condanna da autorità religiose (il papa prima di tutti) e politiche, ma anche da parte di artisti e di sportivi, soprattutto pakistani ed indiani. Ho appena ricevuto un mail da una amica indiana tornata da un concerto natalizio con artisti di diverse religioni di altissimo livello. «Quei bambini erano presenti fra noi!», mi scrive. E l’India e il Pakistan hanno rapporti tutt’altro che facili dal tempo delle rispettive indipendenze.
Eppure, c’è un grande pericolo in questa reazione del mondo di fronte alla tragedia del Pakistan. C’è la possibilità di non rendersi conto cosa questo significhi veramente per la gente di quella nazione. I media e l’opinione pubblica parlano di ‘11 settembre’ del Paese del sub-continente indiano. Come la distruzione delle Torri Gemelle ha sancito un ‘prima’ e un ‘dopo’ nella storia degli USA e del mondo, quanto successo in questi giorni è una ferita nella vita degli uomini e delle donne che in Pakistan sono nati e vivono, che non lascerà le cose come erano. Nulla sarà più come prima. La carneficina di Peshawar è una ferita anche per il Paese in quanto tale, sotto molti punti di vista, primo fra tutti per la sua immagine di fronte al mondo. Ed è proprio qui che i media internazionali devono stare attenti: non si deve correre il rischio di condannare un Paese e la sua gente per quanto accaduto.
Per questo stamattina ho voluto scorrere le pagine di vari quotidiani e di varie agenzie stampa del Pakistan. Mi hanno colpito molti titoli che parlano del raccapriccio di un Paese di fronte ai suoi figli trucidati senza nessuna pietà: qualcosa di incredibile ed inimmaginabile. Questi ragazzi sono figli non solo delle loro famiglie, di militari, ma di tutta una nazione. È un Paese intero che è stato trucidato con loro. Per questo tre giorni di lutto nazionale non sono sufficienti ad asciugare le lacrime e a rifarsi dallo shock abbruttente vissuto nel giro di poche ore.
Come giustamente fa notare un articolo di fondo di una agenzia online, Peshawar, in passato e attualmente – basta pensare che un altro attacco nella giornata di mercoledì ha fatto 10 vittime – ha sofferto molto per le violenze portate da un terrorismo che pare fine a se stesso. Ma niente può essere paragonato a quanto successo nella Army Public School, Warsak Road.
L’uccisione di ragazzini e bambini è una ferita che colpisce l’anima di una nazione e del suo popolo e ci vorrà molto tempo perché tutto questo possa rimarginarsi. E forse questo non accadrà mai nell’immaginario della gente. In una società – commenta un giornalista – in cui gli attacchi terroristici sono all’ordine del giorno e la violenza è una presenza endemica e deprimente, sarà necessario che tutte le forze dello stato (politiche, amministrative, religiose e militari) si attivino per aiutare le famiglie delle vittime, ma soprattutto per ricostruire la coscienza nazionale. Il problema, si fa notare, non può essere affrontato e risolto solo con altra violenza, con contrattacchi militari che mirino alla vendetta. È necessario attaccare quelle che sono le radici della violenza e della militanza terroristica.
Ci si rende conto ormai che il terrorismo non è solo un problema di alcuni Paesi, nei quali tra l’altro sono stati spesso i Paesi occidentali a innescare la miccia per interessi commerciali e geopolitici. Si tratta di una questione globale e globalmente deve essere affrontata per poter, forse, essere risolta. Quanto successo in Pakistan interpella non solo il Paese asiatico, ma tutto il mondo e non solo quello musulmano.
È bene sottolineare, fra l’altro, che nell’attacco del 16 dicembre, come spesso avviene in Pakistan, a morire sono stati tutti giovani musulmani a conferma che anche la matrice islamica del terrorismo non colpisce necessariamente o solamente persone di altre culture e religioni, ma anche e, spesso, soprattutto fedeli dell’Islam stesso. Un secondo aspetto su cui riflettere è che, ancora una volta, come nel caso di Malala – la giovane pakistana insignita solo qualche giorno fa del Nobel per la pace, dopo essere sopravvissuta ad un attacco dello stesso gruppo terroristico – è la scuola ad attirare la violenza. In questo modo si colpisce il futuro di famiglie, di un Paese e dell’umanità.
Soprattutto, però, si taglia alla radice la possibilità di risolvere questi problemi. Lo studio, l’alfabetizzazione, i programmi scolastici ed i progetti educativi sono, infatti, l’arma migliore per sconfiggere il terrorismo bieco e fine a se stesso. Conoscere, significa, infatti, la possibilità di valorizzare l’altro, la sua cultura e la sua religione, quanto in generale gli appartiene. L’ignoranza perpetua la violenza. È, quindi, significativo che il gruppo terroristico abbia attaccato una scuola, come aveva fatto con una ragazzina inerme, oggi famosa in tutto il mondo.
La grande domanda che i Pakistani si fanno oggi è legata all’interrogativo se, una volta terminato il lutto nazionale, il Paese saprà reagire e la nazione potrà trovare una sua unità di cultura e coscienza contro il terrorismo. Molti in Pakistan temono che la risposta sia negativa. Tuttavia, c’è anche da chiedersi se i talebani non abbiano sottovalutato le conseguenze di questo gesto. Colpire l’esercito per provocare sofferenze analoghe a quelle vissute poteva essere un atto di guerra, ma trucidare tante giovani vite è stato un atto disumano e di barbarie. Quale sarà la reazione dell’opinione pubblica nei loro confronti? C’è il pericolo concreto che un atto del genere porti ad un’alienazione dalla popolazione. Il Paese, inoltre, come ha auspicato il primo Ministro Nawaz Sharif, deve ritrovare la sua unità nazionale al di là delle differenze di tendenza politica, etnica e religiosa. Una tragedia di questa portata potrebbe essere un momento decisivo per il futuro del Paese.
Ma il problema è che anche l’opinione mondiale sembra avere una risposta che non va al di là della condanna e non sa trovare modalità per realizzare vie per contribuire a costruire una pace vere nella regione, dopo aver contribuito per anni a fomentare tensioni e divisioni. In questo momento il Paese asiatico, sia pure nel pieno rispetto della sua dignità nazionale, dovrebbe trovare un supporto fattuale e non solo verbale per una eliminazione radicale del terrorismo nelle sue forme più svariate. La pace nella regione è stata cancellata da interventi stranieri oltre trent’anni fa a cui si sono aggiunti processi di alleanze spesso difficili da decifrare che hanno reso la situazione incontrollabile. Un Pakistan che ritrova appieno la sua unità e dignità nazionale ed un contributo da parte del mondo a processi positivi di pace potrebbe segnare una svolta e ricostruire pace e speranza sulla tragedia di queste tante bare di giovanissimi pakistani.