La tragedia di Marcinelle

L'8 agosto di 57 anni fa, 262 minatori, di cui molti italiani, morirono nelle miniere di carbone a Charleroi, in Belgio, a causa di un incendio. Ricordarli oggi significa trovare nel quotidiano le ragioni della nostra civiltà, per far sì che non accada più, da nessuna parte della Terra, che si muoia per il lavoro o per cercarlo
Miniera di carbone di Marcinelle

Dal 2001, l’8 agosto è stata dichiarata Giornata nazionale del sacrificio e del lavoro italiano nel mondo. In genere si dedica una giornata per ricordare qualcosa, per fare memoria, per evitare l’oblio. Eppure, in piena e accesa discussione sull'immigrazione, sugli sbarchi a Lampedusa, sui morti sepolti nel Mediterraneo, penso difficile trovare qualcuno che si ricordi perché oggi è stata dichiarata la Giornata nazionale del sacrificio e del lavoro italiano nel mondo.

Sono le otto e dieci dell’otto agosto 1956: per un tragico errore umano si scatena un incendio nella miniera di carbone di Marcinelle, a Charleroi, in Belgio. Un malinteso e la gabbia si chiude prima del tempo e un vagone male inserito esce fuori dai binari, danneggiando due cavi elettrici. Da qui l’inferno: 262 minatori, di cui 136 italiani, che erano scesi nel pozzo quella mattina, a 975 metri di profondità, si trovarono intrappolati. Morirono tutti!

«Sono tutti morti – scriveva Massimo Caputo sul Corriere della Sera del 24 agosto 1956 –. Queste tre parole campeggiano sulla prima pagina dei giornali di Charleroi usciti di buona mattina in edizione straordinaria, listati a lutto. Sono tutti morti. Le tre parole che la gente ripete costernata per le strade suonavano come tre funebri rintocchi sull’ultimo atto della tragedia di Marcinelle, all’alba del diciassettesimo giorno del suo inizio».

Ieri come oggi, l’emigrazione è costellata di morti, di vedove e di orfani. Quel giorno, come oggi, era in lutto un Paese di poveri, quello dei migranti, divenuti merce di scambio tra il governo italiano e quello belga, che nel 1946 firmarono l’accordo “minatori-carbone”: l’Italia forniva manodopera (47 mila uomini nel 1956) e il Belgio garantiva il carbone. Davvero vite vendute per un sacco di carbone. Vite sacrificate, come oggi, ad un'economia che cerca solo il profitto. E lo cerca nelle miniere di carbone di Marcinelle e Monongah in West Virginia, Stati Uniti, nei campi di zucchero, nelle traversate del Mediterraneo. E non sembri un argomento moralista! È un argomento di cuore, questo sì, ma anche politico. Pensate che a seguito di quella immane tragedia vi fu una solidarietà forte e anche la richiesta – come si suole fare in questi casi – di accertare le responsabilità civili e penali della catastrofe di Marcinelle. Una richiesta  unanime. Il Peuple, giornale socialista belga, uscì listato a lutto fin dai primi giorni del tragico evento. Insomma, tutti rimasero scossi, ma nessuna della cause vere che provocarono l’inferno di Marcinelle fu eliminata.

Solo dopo la morte di 262 disperati finalmente venne introdotto l’obbligo nelle miniere delle maschere antigas. Ma anche allora, come oggi, la causa di questi morti stava nelle ragioni che spingevano ad emigrare. Ma non si cambiò linea economica e politica. Nemmeno oggi.

A rileggere l’editoriale del Corriere della Sera del 9 agosto 1956, sembra di rileggere tante altre disgrazie legate alla disperazione di chi rischia la vita, di chi la perde, pur di avere una speranza di vita dignitosa per sé e per i propri figli. «L’Italia può esportare dei lavoratori, ma non degli schiavi. Se il contegno dei datori di lavoro stranieri e l’atteggiamento egoistico degli stessi sindacati operai di quei Paesi costringono i nostri uomini a lavorare in condizioni di estremo e continuo pericolo, è doveroso intervenire in loro difesa anche sul piano politico e diplomatico, perché gli eccellenti rapporti che intercorrono tra l’Italia e il Belgio non finiscano col soffrirne. Sappiamo che la Ceca (Comunità europea del carbone e dell'acciaio) è intervenuta nella questione per trovare un formula che possa conciliare gli interessi delle società belghe con i sacrosanti diritti alla vita dei minatori italiani e con le giuste esigenze della nostre autorità tutorie».

Far memoria allora è anche in questo caso fare esercizio civico, portare nel cuore la sofferenza dei nostri emigrati, ma significa anche trovare nel quotidiano le ragioni della nostra civiltà. Le parole di papa Francesco che con coraggio è andato in una delle periferie più doloranti, Lampedusa, riecheggiano ancora più forti oggi che ricordiamo Marcinelle: chi ha pianto questi morti? Chi ha pianto i morti di Marcinelle e chi ha pianto i morti del Mediterraneo?

Ricordare Marcinelle è allora un dovere morale e civile. Ricordare per impegnarsi a far sì che che non accada più, da nessuna parte della Terra, che si muoia per il lavoro o per cercare lavoro.

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