La tigre del Bengala sconfigge Modi
Il Primo Ministro indiano Narendra Modi e il suo Ministro dell’interno Amit Shah avevano investito molto nella tornata elettorale che si è recentemente conclusa e che vedeva vari stati di primo piano – fra questi West Bengal, Tamil Nadu e Kerala – recarsi alle urne per le elezioni locali. Il partito di Narendra Modi e Amit Shah, immagine incontrastata del fondamentalismo indù, governa l’India ormai da sette anni ed appare da tempo inattaccabile ed invincibile. Di fatto, il governo centrale indiano, da anni, non ha una vera opposizione e la retorica del partito di Modi, Bharatiya Janata Party (Bjp), che ha acquisito il monopolio politico del Paese, è sempre più rampante ed invasiva.
In India si ha la netta impressione che l’agenda dell’Hindutva, il programma di governo che mira ad un’India per gli indù, sia sempre più radicata a livello amministrativo e socio-politico. Critiche e polemiche, soprattutto in forma di satira, sono tutt’altro che ben accette e non sono pochi gli esempi di arresto, minaccia, violenza fisica che persone e gruppi minoritari o contrari al governo hanno dovuto subire. Modi sapeva bene che queste elezioni erano fondamentali per fare dell’India un Paese sempre più unito sotto la bandiera dell’Hindutva, dalla quale vari stati continuano a tenere le distanze, forti di una identità culturale e linguistica ben radicata e di partiti locali in cui gli abitanti si riconoscono da lungo tempo. Nella sua agenda elettorale lo stato del West Bengal era al primo posto fra quelli da conquistare per dedicarsi in futuro ai due grandi territori amministrativi del sud, Tamil Nadu e Kerala.
Alla causa della conquista di Kolkata e del Bengala, Modi e Shah hanno dedicato forze, tempo, capitale, dispiegamento della macchina governativa da loro controllata e, visto a ritroso, hanno anche imposto un alto prezzo di vite umane. Come ho scritto in un articolo precedente, l’impegno elettorale ha assorbito completamente il governo, convinto che la battaglia contro il covid fosse ormai vinta. Nel corso delle settimane, piene di comizi e di impegni che hanno radunato folle e favorito la circolazione del virus, l’amministrazione di Delhi ha ignorato i segni preoccupanti che emergevano in diverse parti del Paese. Il risultato dello sconsiderato impegno per vincere le elezioni a Kolkata è stato uno dei fattori principali della situazione disperata in cui il Paese ora si trova.
Tuttavia, nel mezzo del dramma che si sta consumando per le strade, negli ospedali e in molte famiglie, una notizia ha fatto scalpore: quella uscita dalle urne. Mamata Banerjee, leader del Trinamool Congress Party (Tmc), nota come la tigre del Bengala per il suo impegno politico e il carattere indomito, ha combattuto una battaglia impari contro il gigante al governo. A parte il non potersi permettere l’infrastruttura a disposizione del duo centrale del Bjp, Mamata, come è familiarmente chiamata, non si è persa d’animo ed ha ingaggiato una vera battaglia contro la retorica di Modi.
Azzoppata, fra l’altro, a causa di una frattura della caviglia, ha continuato la sua campagna in sedia a rotelle, suscitando ammirazione e attirando voti. Il risultato è stato impietoso per il gruppo dell’Hindutva abituato da anni a vittorie a valanga. Il Tmc, infatti, ha conquistato 213 seggi sui 294 a disposizione, relegando il Bjp – che pur si è rivelato in leggera crescita – a soli 80 seggi. È bene notare che i risultati non sono da attribuirsi alla recentissima svolta drammatica della pandemia, perché la tornata elettorale bengalese è durata varie settimane, e quando i contagi hanno cominciato a moltiplicarsi in modo inarrestabile buona parte dei votanti aveva già infilato nelle urne la propria scheda.
Il segnale che emerge dalle elezioni in Bengala è l’idea che l’armata dell’Hindutva, capitanata da Modi, non appare imbattibile. E non si tratta di lasciarsi andare a trionfalismi. La gente del Bengala sa bene che il Tmc, il partito di Didi (sorella maggiore), come molti chiamano affettuosamente la Banerjee, non è esente da scandali e corruzione a cominciare dalla base per finire ai quadri superiori della formazione politica. È la Banerjee che è stata capace di dimostrare con la sua coerenza – vive una vita austera e consona alla politica che predica, vicina ai poveri e non ha mai nascosto la sua ammirazione per Madre Teresa – che è possibile sconfiggere la retorica fatta di prepotenze e arroganza del fondamentalismo.
Non bisogna pensare ingenuamente che il regno dell’Hindutva sia al tramonto: tutt’altro. Il Bjp in questi decenni è riuscito a infiltrare tutti i meccanismi dell’amministrazione pubblica e non solo. La battaglia, quindi, non può essere vinta su questo fronte. Sono necessari leader credibili – cosa che l’opposizione in questi anni non è mai riuscita ad esprimere – che sappiano leggere il cuore della gente comune. E questo la Banerjee ha saputo farlo molto bene.
Come suggerisce un noto editorialista indiano, che fu consigliere di un precedente governo guidato dal Bjp (con Primo Ministro Atul Vajpayee), la Banerjee potrebbe dimostrarsi nel corso degli anni una valida alternativa a Modi per il governo centrale. Non dobbiamo dimenticare che lo stesso Modi è stato per anni, e in contesti assai controversi, il capo del governo locale dello stato del Gujarat. Tra l’altro, la leader politica bengalese ha mostrato anche la capacità di coagulare le diverse anime dello stato, inviando una lettera alle forze politiche concorrenti al fine di formare un fronte comune contro Modi e la sua politica spesso tutt’altro che democratica. E l’invito è stato accolto.
I prossimi anni diranno se di fronte alla crisi pandemica, al crollo dell’economia e ai problemi immensi che il Paese dovrà affrontare, Modi e Shah sapranno recuperare il terreno perduto e se figure come Mamata potranno rivelarsi alternative credibili allo strapotere del Bjp.