La terza volta dell’Infinity dell’Infinity
Il cinema non è più solo quello delle Major. Sta crescendo, e la si sentirà presto, una nuova generazione di cineasti. Con una sensibilità – da qualsiasi parte del mondo provengano – all’autenticità della ricerca umana, al suo sforzo, talvolta doloroso e drammatico, ma comunque sincero. Certo, il clima che si respira all’Infinity Festival è familiare, libero, ed aiuta la comunicazione di progetti e lavori. Uno dei migliori festival cui abbia mai assistito, commenta Jeppe Ro/nde, regista danese, alla sua prima volta ad Alba. Un’atmosfera molto cordiale, riposante , assicura Luigi Lo Cascio, venuto a tenere una lezione di cinema – che risulta poi l’esperienza della sua vita d’artista – ad una folla di giovani. Già, perché la presenza giovanile è un’altra delle peculiarità di Infinity. Il Festival è stato preceduto da un convegno di due giorni Filmare l’invisibile, operazione paradossale per il cinema che si impressiona a partire dal visibile, dal reale, come annota in apertura don Dario Viganò della Cei agli oltre 150 convegnisti. Bruno F o r n a r a , c r i t i c o , P i e t r o Montani, filosofo e il priore di Bose Enzo Bianchi animano la tavola rotonda, insieme ai registi Emanuele Crialese, e Nicolas Philibert (quello di Essere e avere): ottiche diverse (è questa una bellezza del Festival, spirituale in senso lato) ed intuizioni come il cogliere l’altro spazio che esiste al di là di ciò che viene filmato da parte dello spettatore. Il che porterebbe ad un modo nuovo di leggere un’opera filmica. È anche con questa prospettiva che si possono comprendere meglio i lavori dei cineasti che spaziano a largo raggio sull’universo- uomo. Se Claire Simon, (Marocco) in Récréation esplora la forza dei sentimenti con un atteggiamento d’infanzia spirituale, Marc Weymuller (Francia) in Malgré la nuit parla di nostalgia della contemplazione attraverso gli occhi di un monaco; Kim-Ki-duk, coreano, ritrae gioie e contrasti della vita (Primavera estate autunno inverno… e primavera), e in Adieu, Arnaud des Pallières è irrisolto davanti al mistero della morte, mentre il tedesco Hans-Christian Schmid partecipa con uno sguardo d’amore in Lichter al dramma dell’immigrazione dall’Est all’Ovest e in Crazy scruta le difficoltà dell’adolescenza di oggi. Dal Portogallo, Teresa Villaverde osserva i traumi della vita con gli occhi disarmanti di un bambino( A Idade maior) o nebbiosi dei giovani (Os Mutantes), e dall’Italia Leonardo Di Costanzo in Prove di stato è lucido e commosso dinanzi alla realtà sociale di Ercolano. L’umanità è la grande protagonista di Infinity. Con una grande varietà di accenti e di proposte, tutte comunque orientate ad un cinema di spessore, che dica qualcosa che resti. Così il premio Albacinema alla regia va al peruviano Josué Méndez, 28 anni, per Días de Santiago, ritratto di un soldato di 23 anni dalle molte delusioni e dolori; Miglior film è l’americano Pieces of April di Peter Hedges, 42 anni, un’indagine sulla famiglia che alterna leggerezza e tensione; miglior film Uno sguardo nuovo a Frescki (affreschi) del russo Aleksandr Gutman, 26 anni, storia di un ragazzo che cresce, speranzoso, in una città armena terremotata: ove il contrasto fra le macerie umane e spirituali e la vitalità del protagonista trova annotazioni liriche; Menzione speciale a Galoot, dell’israeliano Asher De Bentolila Tlalim: toccante consapevolezza della situazione israelo- palestinese nel racconto di un ebreo esiliato, padre marito amico dei palestinesi. E il Premio del pubblico – una bella novità – va a Long Gone, vicenda di sei vagabondi americani, di Jack Kill e David Eberhardt. Si premia, insomma, la capacità ancora viva del cinema di indagare dentro, di accettare l’inesplorato: senza soluzioni facili, ma col coraggio della ricerca che non si ferma. La settima arte è dunque viva. Grazie anche ad un festival controcorrente. Il che, di questi tempi, merita d’essere incoraggiato e sostenuto. REGISTI ALLA RICERCA Emanuele Crialese, autore di Respiro, opera di grande impatto. Romano, di famiglia palermitana, un nuovo film corale sull’emigrazione in fase di scrittura, confessa che ci sono tanti modi di vedere un film: uno di questi è il non-detto che lascia spazio allo spettatore, al lettore… perché in un film l’autore si pone delle domande, le condivide con gli altri, magari è attraverso loro che arrivano le risposte. M’interessa – dice – il progetto di ricerca, della scoperta. Per me fare un film è così un modo per trovare punti in comune con fratelli, con persone che sono come me, scoprire che ci accomuna qualcosa che va ben oltre il linguaggio. Jeppe Ro/ nde (foto sotto), 31 anni, danese, autore di Jerusalem my love primo di una trilogia sulla fede, la speranza e l’amore, tutte collegate perché senza di loro non hai una vita che vale. Ro/nde è in cerca della fede perduta dopo la morte del padre, e non ancora ritrovata: Ho scelto Gerusalemme con la storia di tre persone di religione diversa, ma che vivono nell’amore per gli altri, perché è una città di amore e di odio, di dolore anche, dove il confine tra fede e non fede è molto sottile… Oggi – afferma – soprattutto noi giovani cerchiamo qualcosa di più, dopo che i nostri padri negli anni sessanta hanno bruciato tutto: cerchiamo qualcosa che sia fra la terra e il cielo. Che è quanto appare dal film, dalla sua vicenda fra amore e dolore.