La terra di Gesù
Evenu shalom alehem (E sia la pace con noi): sto riascoltando la famosa canzone da un CD con le più belle canzoni popolari ebraiche, che l’autista palestinese cristiano del nostro pullman mi ha regalato alla fine del nostro pellegrinaggio in Terra Santa. L’abbiamo cantata nella traversata del lago di Tiberiade con i marinai che conducevano la barca.
La Terra Santa è un confluire di persone e gruppi di ogni nazione, lingua e religione. Ero con un gruppo di più di trenta brasiliani (io solo brasiliano per tre quarti): ci si è incrociati spesso più di una volta in luoghi diversi (quattro volte con dei nigeriani multicolori), ci si sorrideva, si scambiava un good morning e un thank you (quasi tutto il nostro dizionario), si pregava fianco a fianco.
Ma la Terra Santa, dove come fiumi le nazioni si uniscono nell’unico mare, è terra della divisione, della diffidenza, della paura, dell’odio, della guerra. Il muro che divide Israele dai Territori Palestinesi occupati è come un taglio sanguinante nel corpo di Cristo. Alla fine della sua visita alla Terra Santa nel 2009, Benedetto XVI l’ha definito “una delle visioni più tristi del mio viaggio”.
Visitare questi luoghi vuol dire partecipare all’incarnazione di Dio, che non è un risultato asettico costruito in laboratorio – come ottenere l’acqua unendo idrogeno e ossigeno – ma è stata ed è un’immersione nell’umanità ferita e sporca. È vedere il sogno di Dio apparentemente infranto, messo in scacco dal rifiuto dell’uomo alla ricerca del potere, della forza, del denaro.
Ma non in maniera definitiva. Nella Basilica del Santo Sepolcro, a pochi metri di distanza l’uno dall’altro, si trovano il Calvario e il luogo della risurrezione di Gesù: testimoniano due fatti a prima vista contraddittori ma fusi dall’amore. Una sconfitta che diventa la vittoria determinante il corso della storia.
Abbiamo incontrato alcuni cristiani palestinesi, che ci hanno descritto la loro sofferenza come popolo e come Chiesa: senza lavoro, quasi senza possibilità di abitazione, senza sicurezza, con un futuro incerto. Dopo la guerra del 1967 il 35% dei cristiani (di popolazione araba) sono emigrati. Quelli che restano sono ormai una minoranza quasi insignificante della popolazione totale palestinese, circa il 2%. Si trovano stretti fra i due gruppi maggioritari, gli ebrei e i musulmani.
Eppure gli amici che ci parlavano stavano in piedi. Ci hanno detto: “È difficile vivere il vangelo qui. Soprattutto è difficile perdonare al nemico. Ma noi vogliamo insegnarlo ai nostri figli. Nonostante tutto, finché sarà possibile, non ce ne andremo. Che senso avrebbe la terra di Gesù senza cristiani?”.
Ci hanno chiesto due cose: far conoscere la loro vera situazione in mezzo al mare di disinformazione e di silenzio dei mezzi di comunicazione sociale. E pregare per loro.
Non chiedono altro. La loro debolezza è la loro forza.