La terra dei profumi

Secondo Plinio il Vecchio, in Campania si producevano più profumi che olii nelle altre regioni. Il centro più attivo della cosiddetta Campania Felix era Capua, con il suo antico centro, poi ribattezzato Santa Maria Capua Vetere, e la città nuova. Da vedere, il museo con le statue delle Matres Matutae
Una delle Matres Matutae del museo campano di Capua

Campania Felix, cioè “fortunata”: così la chiamavano gli antichi. Fortunata per la straordinaria feracità di un suolo di origine vulcanica che assicurava, in certe zone, più raccolti nello stesso anno. Una terra rinomata anche per i profumi, secondo quanto asseriva Plinio il Vecchio: «Si producono più profumi in Campania che olio nelle altre regioni».

Il più attivo centro di smercio di tali prodotti era Capua, splendida metropoli dotata di un secondo foro – la Seplasia – espressamente riservato a mercato di profumi (alla sua florida economia concorrevano comunque anche l’agricoltura e l’artigianato artistico di bronzi e ceramiche).

Esaltati anche da Virgilio erano i roseti di Paestum, dove di recente, a pochi metri dai suoi maestosi templi dorici, ne sono stati impiantati di nuovi, dopo aver selezionato tra le varietà floreali la più vicina possibile a quella descritta dagli antichi autori, rifiorente nel periodo autunnale.

Ebbene sì: per ironia della sorte, diverse zone delle province di Napoli e Caserta oggi appestate, purtroppo, da quei roghi tossici di rifiuti che le hanno dato la nomea di “Terra dei fuochi”, olezzavano nell’antichità per le immense piantagioni di rose che fornivano la materia prima per la produzione di profumi e unguenti, il più ricercato dei quali era il rodinon italikon.

Ma ritorniamo a Capua, all’«altra Roma», come la definì Cicerone, preoccupato per quella che poteva rivelarsi una pericolosa rivale. Non è usuale cercare una città e trovarla sdoppiata in due, ma è proprio ciò che avvenne alla metropoli campana ad un certo punto della sua storia millenaria: già saccheggiata e rasa al suolo nel 456 dai vandali di Genserico, nell’856 i suoi abitanti, sotto la minaccia delle incursioni saracene, si trasferirono a cinque chilometri di distanza, nel sito dell’antico porto fluviale di Casilinum, presso un’ansa del Volturno. E lì fondarono con i materiali e i marmi della vecchia città, quasi a perpetuarne il ricordo, la nuova Capua. Senonché, come un albero troncato alla base non vuol saperne di morire e manda fuori nuovi polloni, la città madre risorse delle rovine e dall’abbandono attorno al suo vetusto episcopio: stavolta con un nome più complesso, Santa Maria Capua Vetere, che tuttavia inglobava l’antico. E fu dapprima principato longobardo indipendente, in seguito un importante centro normanno e svevo (con Federico II) e più tardi ancora angioino e aragonese.

Due città, dunque, in cui ricercare lo spirito dell’unica Capua così come me lo va illustrando con sensibilità di architetto e di artista, talvolta accalorandosi davanti agli scempi edilizi che sfigurano la loro bellezza, l’amico Rosario (manco a farlo apposta, un nome che richiama le rose di antica memoria!).

Nella Vetere, testimoni della colonia romana, rimangono le possenti strutture di un anfiteatro: il secondo per grandezza dopo il Colosseo. Nello spettacolare ovale, oltre ai sanguinosi ludi gladiatori che fiorirono proprio in Campania, giochi originariamente legati a celebrazioni sacre o per defunti, si celebravano un tempo le profumate feste dei Rosàlia. Di grande suggestione la visita ai sotterranei, tra i più conservati dell’antichità. Accanto ad esso altri ruderi, riemersi di recente: appartengono ad un precedente minore anfiteatro, probabilmente quello dove si allenò Spartaco, il gladiatore trace che tanto filo da torcere diede a Roma come trascinatore di schiavi ribelli. Dopo una puntata al ben conservato sacello sotterraneo dedicato al culto del dio persiano Mitra, già rifugio antiaereo durante l’ultima guerra (e infatti, insieme a ciò che resta dei primitivi affreschi, si nota un rozzo disegno che sembra raffigurare Hitler), ci dirigiamo – peccato sia poco frequentato! – al Museo archeologico dell’antica Capua: allestito in un’ex caserma borbonica su resti della trecentesca residenza in cui nacque Roberto d’Angiò, re di Napoli, tra le sue collezioni sfoggia i corredi e le testimonianze del villaggio preistorico definito come la “Pompei di Nola”.

Altra tappa alla nuova Capua, nel cui centro storico, incastrati nelle mura degli antichi palazzi, fanno mostra di sé cippi, colonne e rilievi sottratti alla città madre. Rosario mi fa ammirare le chiavi di volta scolpite provenienti dall’anfiteatro capuano. Poi, dulcis in fundo, una sosta al Museo campano, vero scrigno delle antichità delle regione risorto dalle bombe dell’ultima guerra: da anni, infatti, desideravo rivedere la celebre serie di Matres Matutae: ex voto di donne devote ad una dea della fertilità, che esibiscono orgogliose il loro carico di infanti. Forte l’emozione, grazie al nuovo allestimento che esalta la vitalità prorompente di queste rustiche immagini prive di bellezza classica (vedi foto), ma che sembrano incarnare tutta la forza di un popolo. E questa vista è tale da far letteralmente dimenticare quanto di bello, ma trascurato – in terra capuana – attende ancora di essere valorizzato.

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