La tenda di Sidi

Sulla spiaggia delle palme a Lampedusa, sotto le tettoie di fortuna convivono amicizia e negazione della dignità umana
lampedusa

Stanno cucinando un polpo su una pentola arrangiata e su una griglia di fortuna. Sull’altro falò invece sono stese delle sardine. Appena pronte, le offrono gentilmente. L’ospitalità viene prima di tutto, anche della miseria in cui questa cucina è stata approntata. Sidi e i suoi amici sono sbarcati a Lampedusa da due settimane. Il primo ad arrivare è stato lui, mentre giorno dopo giorno si aggiungevano conoscenti, amici, persone giunte dallo stesso villaggio: Bir Elhafey, nell’ovest della Tunisia.

 

Hanno ricreato la loro comunità e così hanno fatto i loro vicini, riproducendo in questo lembo di spiaggia un pezzetto del loro Paese. Sidi è un ventitreenne, diplomato in turismo e i suoi amici lo precedono o lo seguono di qualche anno. Solo Lotfi è più grande e ha alle spalle l’esperienza di una miseria e di una tirannia troppo a lungo sopportata. Tre giorni è durata la loro odissea in mare, poi l’avvistamento della guardia costiera e l’approdo sull’isola e nella miseria. Il centro d’accoglienza al collasso non poteva accoglierli e a dir la verità nessuno si è neppure preoccupato di arrivarci.

 

La conversazione diventa meno stentata perché si aggiunge Nizar, che conosce l’italiano: è lui a catalizzare la conversazione e tutti lo pregano di fare da interprete. Intanto emergono da questa traballante tettoia di stracci altri due ragazzi. In tutto la tenda di Sidi ne ospita 14. Hanno felpe con scritte inglesi, jeans griffati clandestinamente, occhiali da sole e inseguono anche loro il sogno dell’Occidente libero, ricco e permissivo.

 

«Da noi non c’è libertà», dice Lofti. «Il governo è cambiato, ma viviamo nel caos. Tutto il sistema economico era in mano a Ben Alì. Partito lui, non c’è più nessuna organizzazione». Nizar ha gli occhi ridenti. Vuole trovare un lavoro in Italia o in Francia, non ce la fa più a vivere con 200 dinari. Per arrivare in Italia ne ha pagati 1.500, qualcun altro duemila. Si sono imbarcati su un peschereccio e hanno guidato a turno, per loro nessuno scafista, ma una compagnia che fornisce le imbarcazioni.

«La polizia non ci ha neppure fermato, sa che nel nostro paese non c’è nulla, non c’è futuro». Nizar non ha portato neppure la valigia, ma una piccola sacca: il suo viaggio ha tutto il sapore dell’avventura. Lo stesso non è per Lofti, la prolungata permanenza all’addiaccio ha affievolito la speranza. Teme il rimpatrio. E supplica di non tornare, seguito in coro dagli altri.

 

Poco vicino c’è un altro gruppo intento a pulire la paranza, resti di piccoli pesce regalati da un pescatore. Loro vengono da un altro villaggio. Appena sbarcati sull’isola siciliana hanno telefonato agli amici e li hanno raggiunti sulla collina della vergogna dove sono state allestite due tende, che in qualche modo li riparano dal freddo. Si apprende la geografia tunisina percorrendo la collina e salutando gli accampati e si apprende anche che il desiderio di libertà è pronto a sfidare le più ardue fatiche e le condizioni più disumane.

 

Perché su questa collina si crocifigge la dignità: nessun servizio igienico, nessun materasso o sacco a pelo, spazzatura ovunque, odori nauseabondi non solo per i vestiti impuzzolentiti dai giacigli di fortuna. Non ci sono neppure le coperte e alcuni sono avvolti in plastiche. «Nel mio Paese solo i cani dormono in strada, io non ho mai dormito per terra», grida Mohamad. Mentre scansiamo l’ennesimo traliccio su cui sono stesi ad asciugare dei jeans e delle maglie, sotto di noi sventolano i teli di questi accampamenti. Disgusto e orrore, incredulità e sconcerto ci assalgono. Tutto questo nella civile Italia, tutto questo nel 2011. Ancora una volta il perché irrompe e strazia, perché straziante è questo scempio di dignità.

 

 Le ruspe stamani avevano provato ad abbattere qualche riparo, ma la rivolta è stata immediata anche perché molti di loro resteranno ancora qui, almeno una notte, forse l’ultima in questo suk arabo, in terra d’Europa. Il centro d’accoglienza non sembra neppure una prospettiva, per loro si profila solo la partenza.

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