La tempesta del ventaglio
Al suo quinto Goldoni, Luca Ronconi sceglie per il tricentenario della nascita del commediografo e per le celebrazioni dei sessant’anni del Piccolo di Milano, una delle opere meno rappresentate sulle nostre scene: Il ventaglio. Scritta negli anni del volontario esilio parigino, Goldoni rinuncia ai grandi ritratti psicologici e di ambiente fra calli e campielli, e sceglie un impersonale borgo lombardo per la nuova impresa espressiva: un’abilissima commedia di intrecci di teatralità pura, dove gli equivoci creati da un ventaglio che tarda ad arrivare a destinazione scompaginano i rapporti umani e sociali. Un meccanismo semplice e perfetto per parlare di sentimenti non più affidati al linguaggio amoroso, ma ad un oggetto frivolo. Quel ventaglio, appunto, che invece di recare frescura e respiro scatena una tempesta emotiva fra i personaggi. In essi il regista ravvisa la difficoltà di saper comunicare tra loro se non attraverso quell’oggetto che condensa le forze del desiderio. Caduto distrattamente dal balcone della bella Candida, l’innamorato e timido Evaristo provvederà a sostituire il ventaglio rotto con uno nuovo che affiderà alla popolana Giannina per farlo giungere di nascosto nelle mani dell’amata. Il ritardo di questa consegna genererà un girotondo di malintesi, pettegolezzi, e rivalità passando diverse mani che lo agitano, inconsapevoli della sua importanza. I personaggi si presentano all’inizio intenti nei loro mestieri e producendo i relativi rumori, accompagnati via via da una musica carica di tensione che nel finale assumerà i toni di un uragano. A tagliare la vasta scena metafisica di Margherita Palli con lunghi tavoli da lavoro appoggiati a grandi pareti grigie, c’è un balcone metallico sospeso, con un cannocchiale dal quale l’anziana zia Gertrude (un’incantevole Giulia Lazzarini) osserva a distanza quel mondo che va scomparendo. Ronconi prosciuga l’azione dilatandola, rifugge il realismo a favore di una mirabile levità della messinscena, grazie ad una recitazione mitigata nel ritmo che sembra voler scavare nel significato delle parole e delle azioni. Ha momenti di semplice invenzione poetica quando fa volare come un uccello il ventaglio, allorquando più mani se lo contendono avidamente; e altri di folgorante spiazzamento quando un vento impetuoso divellerà sedie e tavoli, e spazzerà via le pareti rivelando l’enorme vetrata di un interno dove troveranno quiete gli animi finalmente ricomposti. Spettacolo di eccellente fattura che vede tra gli interpreti Massimo De Francovich, Raffaele Esposito, Pia Lanciotti, Federica Castellini. CONFLITTI NELLA NOTTE Di un grande classico del teatro del Novecento quale è Lunga giornata verso la notte di Eugene O’Neill, Ingmar Bergman in una memorabile messinscena che vedemmo in Italia anni addietro, fece un capolavoro assoluto di regia, identificandosi in quell’inferno domestico a lui vicino espresso anche in alcuni film e attraverso la tremenda sincerità di un libro autobiografico. Ed autobiografica è questa opera-testamento dello scrittore americano, talmente dolorosa che egli stesso ne prescrisse la rappresentazione postuma. Lo spettacolo, ambientato in una residenza del New England durante una nebbiosa giornata d’agosto, è costruito come un gioco al massacro che dal mattino alla notte vede impegnati i quattro componenti della famiglia Tyrone: un anziano ex-attore, alcolizzato e avaro, la moglie morfinomane dopo il traumatico secondo parto, il primo figlio Jamie, senza avvenire e perso nell’alcol, e il secondo, Edmund, aspirante poeta, minato dalla tisi. In un lungo e violento scavo nel passato e negli animi da dove affiorano verità tenute nascoste, il fiume verbale si innesca alla notizia del ricovero in sanatorio di Edmund. Affetti profondi e rivalità, eccessi di amore e di indifferenza, attimi di solidarietà e abissi di odio, costituiscono la materia prima di una progressione drammatica di svelamenti crudeli continuamente contrapposti alla pietà e al desiderio di perdono. Il giovane regista Carmelo Rifici (cresciuto con Ronconi anche come assistente) sfoltisce la piéce e sceglie la chiave antinaturalista dall’atmosfera cupa, vicina al simbolismo. Con in vista un orologio dalle lancette ammattite, colloca la vicenda dentro una stanza museale di porte ora trasparenti, ora specchianti, riempita di quadri quali testimoni muti che assistono allo sgretolamento finale. C’è un ritratto di Shakespeare da cui attinge citazioni l’anziano, e una Natività a cui guarda la moglie per indicare la sua fede. Ma nel ricorrere di citazioni c’è anche Baudelaire e Nietzsche nominati dal figlio malato che nega Dio e la sua compassione. Un allestimento di nitida chiarezza al servizio della parola e del lavoro dei bravissimi interpreti – Claudia Giannotti, Marco Balbi, Nicola Stravalaci, Emiliano Masala, Francesca Minatoli – concentrati al massimo grado in un gorgo vocale e gestuale dell’anima. E la Giannotti, ritornata sulla scena dopo lunga assenza, ci regala una follia tutta interiore, umanizzando la sua deriva psicologica.