La stupidità della guerra e l’urgenza della vera politica
Alle 4 del mattino del 27 novembre 2024 è iniziata la tregua nel conflitto Israele-Hezbollah. Non è ancora la pace. È solo un primo passo a cui deve assolutamente seguirne un altro per Gaza, ma restituisce un po’ di speranza.
Quando ero arrivata ad Haifa, in Israele, tre anni fa, ero consapevole del conflitto aperto da 76 anni, ma mai avrei pensato ad una simile escalation. Da dentro una guerra a così alta intensità si comprendono diversamente le cose. Sicuramente c’è disagio personale. Sofferenza per le vittime, tutte. Indignazione, tanta. Ma quello che mi si è messo di più a fuoco è la stupidità della guerra.
Essa è irrazionale: cerca sicurezza e provoca instabilità (solo riguardo ai rifugiati: 1,9 milioni a Gaza; 135 mila in Israele; 1,2 milioni in Libano); per procurarsi risorse, provoca disastri economici (le stime in $Usa: 18,5 miliardi di danni a Gaza; per Israele 66 miliardi di costi e 400 miliardi di perdita economica nei prossimi 10 anni); a prezzi disumani ottiene lembi di terra da cui sprigionerà nuova violenza.
Eppure, pur nell’evidenza dei suoi paradossi, la guerra corre e ricorre lungo la storia. Non ci insegna nulla, proprio perché è irrazionale. Oggi, in un mondo interconnesso, ha immediati risvolti globali. E nessuno può puntare il dito. Neppure come semplici cittadini verso i governanti, perché anche le liti familiari e aziendali hanno la stessa dinamica.
Difronte a ciò la storia dell’Ue dimostra quanto sia stato conveniente condividere la produzione di carbone e acciaio, neutralizzando anche, in tal modo, chi con la guerra ci guadagna. Ma quella europea è stata una scelta politica. La diplomazia può contribuire ad una tregua armata. I consulenti militari, si vis pacem, para bellum, sanno aprire la corsa al riarmo. Ma solo la politica è lo strumento per “preparare la pace”.
Purtroppo il dramma di oggi è che la politica pare aver perso la bussola, facendoci precipitare nel disumanesimo.
Nel 2017 usciva in 14 lingue il libro La grande regressione: 15 intellettuali di livello mondiale indagavano sulle cause e conseguenze di quella che consideravano una grande involuzione di civiltà: «La politica dovrebbe… cercare soluzioni globali per problemi globali. Allo stesso tempo servirebbe lo sviluppo di una mentalità corrispondente: un sentimento-del-noi cosmopolita». «Tuttavia la politica non è riuscita a elaborare alcuna strategia. Anche sul piano soggettivo, evidentemente, non si è affermato alcun sentimento-del-noi cosmopolita. Piuttosto oggi siamo di fronte a una nascita delle distinzioni “noi”-“loro” a livello etnico, nazionale e confessionale».
La questione del “sentimento-del-noi” è dirimente sia per le democrazie occidentali in crisi, sia per i Paesi che non vi si riconoscono. Riteniamo infatti che la “democrazia liberale” sia una garanzia per i diritti umani e per la pace. Ma non così.
Anzi, è «la democrazia contro sé stessa», come ha scritto Marcel Gauchet. Oggi infatti «la pietra di paragone non è più la sovranità del popolo, ma quella dell’individuo, definita fino all’estrema possibilità, se necessaria, di avere la meglio sul potere collettivo. Così, passo dopo passo, la messa in ombra della sovranità popolare da parte della sovranità individuale, conduce inesorabilmente nella direzione di una democrazia minimale».
Una democrazia minimale non in grado, in questo quarto di secolo, di prevenire le guerre, di regolare la globalizzazione diseguale e di riformare le istituzioni multilaterali. Davanti al degrado, si è voltata dall’altra parte, sopportando palesi violazioni del diritto, raffreddando i valori della comunità umana. Invece di preparare la pace, si sono preparate le guerre e la cultura che le sostiene. E siamo scivolati nel disumanesimo.
Per superare questa crisi di civiltà, credo che il punto da cui poter ricominciare sia proprio quel “noi”. “Noi”: il popolo nella sua interezza. Leader capaci di verità, di amore al proprio popolo e nello stesso tempo agli altri popoli, congiuntamente ad una cittadinanza attiva, capace di convivenza e di cooperazione.
«Abbiamo bisogno sia di peacemaking (la politica e la diplomazia) sia di peacebuilding (l’agire dei cittadini e dei gruppi della società civile con le Ong)». Così scrive Rabbi Ron Kronish, oltre 30 anni dedicati al dialogo e al coordinamento delle Ong per la pace in Israele e Palestina.
Organizzazioni attive anche e proprio in tempo di guerra. Scrivono i ragazzi arabi ed ebrei di Standing Together: «Il futuro che vogliamo – pace e indipendenza per Israele e Palestina, piena uguaglianza per tutti in questa terra, e una vera giustizia sociale, economica ed ecologica – è possibile… dobbiamo alzarci insieme come un fronte unito… [per] progettare un’alternativa al presente e costruire la forza politica che renda questa trasformazione possibile».
E lo hanno detto a fatti pulendo i rifugi pubblici di Haifa, intervenendo in caso di liti nelle città miste, proteggendo i cargo di aiuti per Gaza, allestendone essi stessi più di 400. Sono testimone anche di tanti fatti della vita quotidiana, nel lavoro, coi vicini di casa, che attestano la possibilità di relazioni vere, amicizia e fiducia, anche con chi è della parte nemica. Stanno nascendo inoltre iniziative volte a convertire la rabbia e la violenza in azioni non violente. Mi ricordano Gandhi e Martin Luther King.
Però c’è una differenza. Allora i motori del cambiamento erano grandi leader, oggi sono ovunque azioni collettive. Una novità da cogliere, forse segno di maturazione dell’umanità come unico corpo sociale, che apre a quella che il documento di Abu Dhabi del febbraio 2019, sottoscritto da papa Francesco e dal grande imam di Al-Azhar, Ahmad Al-Tayyeb, chiama la “Fratellanza Umana, per la pace mondiale e la convivenza comune”.
E se emerge una “leadership diffusa”, alla politica è richiesta una rivoluzione copernicana. Anziché uomini o donne “forti”, deve saper esprimere leader capaci di una governance collaborativa che è la corresponsabilità tra istituzioni e società.
Ci preoccupa, ad esempio, la debolezza dell’Onu. Mi sono chiesta se invece di un aggiustamento istituzionale, non serva piuttosto rifondare un patto, più inclusivo di tutti popoli e basato sulla corresponsabilità tra istituzioni e le realtà civili transnazionali. Per uscire dal disordine mondiale, infatti, non basta far tacere le armi, occorre un nuovo assetto condiviso che renda inutile risolvere le questioni con le guerre.
In Medio Oriente si immagina che superare l’odio richiederà tempi lunghissimi. In un certo senso è vero. Ma in un altro senso è necessario un rapido e radicale cambiamento della nostra coscienza umana. Altrimenti ci trascineremo e rimarremo impantanati nel disumanesimo.
E proprio un tale cambiamento radicale ha dato vita all’Unione europea. Essa ha anche l’esperienza di una modalità di relazioni tra i popoli ben riassunta dal motto “unità nella diversità”. Questa dinamica tra unità e molteplicità, che garantisce l’identità di ogni popolo, è oggi necessaria per riaprire comprensione e fiducia tra i popoli.
Per questo credo che l’Europa – e i suoi membri, in particolare quelli fondatori, come l’Italia – possano dare un contributo concreto e fondamentale ad un futuro di fraternità tra i popoli.
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