La strana guerra georgiana

I soldati russi del posto di blocco alle porte di Gori, l’ultimo che dobbiamo superare per raggiungere la città natale di Stalin, hanno i tratti somatici dell’immensità delle terre controllate da Mosca: occhi a mandorla e capelli biondi, mascelle caucasiche e facce piatte. Sono equipaggiati come si deve – le imponenti autoblindo paiono nuove di zecca -, ma qualche dettaglio tradisce la precarietà della situazione che anche loro vivono, analogamente a quanto accade ai loro colleghi georgiani: scarpe rabberciate, magrezza eccessiva, occhi spiritati dalla vodka o da chissà cos’altro. Riusciamo a passare non tanto con la forza dei salvacondotti diplomatici, quanto con una vecchia tessera dell’Unhcr, l’ente Onu per i rifugiati, e qualche pagnotta profumata. È il 21 agosto, i russi ancora bloccano a muso duro ogni accesso a Gori, 60 mila abitanti, indiscutibilmente la città-chiave di questa strana guerra georgiana, situata com’è a pochi chilometri dalla capitale dell’Ossezia del Sud, Tskhinvali, punto di passaggio per l’unica strada praticabile e per l’unica ferrovia attiva che collegano la Georgia orientale (Tbilisi) a quella occidentale (il porto di Poti). Condotti da quel caterpillar umanitario che è padre Witold Szulczynski, direttore della Caritas Georgia, il nostro drappello riesce a portare un po’ di derrate alimentari alla gente di Gori, ai diecimila che sono rimasti nonostante l’arrivo dei carri armati di Mosca. Con noi c’è anche un altro giornalista italiano, Pino Agnetti, vero reporter di guerra, e il principe romano Lelio Orsini, figlio della ambasciatrice georgiana presso la Santa Sede, tra i maggiori benefattori del Paese. Passiamo dapprima al palazzo del comune ferito dalle esplosioni, che s’eleva neoclassico all’ombra della grande statua di Stalin – dicono sia l’unica rimasta in piedi nell’ex- Urss -, dove ci accolgono come marziani. Sui gradini siedono uomini e donne coi denti d’oro e gli occhiali antidiluviani, negli occhi lo smarrimento, se non l’angoscia. Paura che li fa sobbalzare ogni volta che il rombo inquietante delle autoblindo russe in perlustrazione copre il nostro conversare. I vetri degli uffici sono tutti in frantumi, qualche sventagliata di mitra disegna arabeschi sulle pareti. Alla chiesa ortodossa, dove scarichiamo gran parte della farina, della pasta, della carne in scatola e delle patate di provenienza soprattutto polacca e italiana, una folla di due-trecento persone tradisce nei gesti e nelle parole l’ansia di qualche aiuto. Hanno fame. C’è dignità, è bella gente; ma quel frugoletto che piange chiedendo un tozzo di pane, o quella vecchietta che non ha più la forza di fare la fila dicono che qui le privazioni hanno già mietuto le loro vittime. La sofferenza dei piccoli Guerra è sinonimo di sofferenza, oltre che di stupidità umana. Qui in Georgia ne incontro non poca. Alla scuola di Gldani, nella capitale Tbilisi, sono raccolti 350 dei circa 80 mila profughi provenienti dall’Ossezia del Sud (le cifre vanno prese sempre con le molle nelle vicende caucasiche). Gli uomini non parlano, preferiscono cercare di riparare un camion che avrà cinquant’anni, o fumarsi in disparte una sigaretta. Le donne, invece raccontano. Ila Gogolauri viene da Arbo, due chilometri a sud di Tskhinvali: Da qualche mese assistevamo a continue provocazioni, un morto qui uno là, una sparatoria. Anche il 7 agosto mio marito, sentendo gli spari, diceva che non c’era da preoccuparsi. Ma le deflagrazioni sono continuate e si sono avvicinate. L’8 agosto abbiamo visto arrivare i georgiani, che però il 10 sono tornati indietro dicendoci di scappare, perché arrivavano i russi con le bande degli ossetini, le più temibili. L’11 siamo scappati verso Tbilisi. Tre persone sono morte a Arbo, e i nostri vecchi sono ancora lì. Lamzira Metreveli viene invece da un villaggio a nord di Tskhinvali, Kekchvi, un paesello misto di georgiani e osse- tini. L’esattezza delle sue affermazioni, come quelle di tutti i profughi, non è verificabile: i si dice arrivano come pallottole e se ne vanno, senza poterne accertare la credibilità. Ma indiscutibile è la sofferenza di questa gente, la sua ferita profonda: Viviamo nella precarietà da vent’anni. Sotto il regime sovietico dovevamo coabitare nelle stesse strade. Poi è arrivato il caos, con le sue vendette e le sue ripicche. Non ne possiamo più. Siamo fuggiti per i sentieri di montagna, quindici ore di notte, con la paura di essere intercettati. Abbiamo visto ossetini e georgiani spararsi: i bagliori erano terribili, e il rombo degli aerei infernale. Qualche giorno più tardi, dall’altra parte della Georgia, a Kutaisi, incontro altri profughi in un’altra scuola, nel centro della città. Entro nell’androne, masserizie dappertutto. Dinanzi a una lunga fila di lavandini, con un solo rubinetto funzionante, una donna lava i panni, che poi stende ad asciugare in quella che doveva essere la portineria. L’edificio sembra proprio bombardato; ma no, mi dicono che le scuole georgiane sono tutte così. Non un gradino delle dieci rampe di scale che salgo è integro. Sporcizia. Al quinto piano trovo una ventina di famiglie, 70 persone in tutto. Vengono dall’altra zona contesa, l’Abkhazia. I loro racconti sono simili a quelli dei profughi dell’Ossezia del Sud. Mi dice ad esempio Tamasi Tedarian, che qui ha portato la madre di 87 anni, la moglie e la figlioletta: Siamo partiti il 13 agosto, scappando dopo due giorni di bombardamenti costanti. Abbiamo fatto a piedi dieci chilometri di notte, fino a Achgvara, dove un vecchio autobus ci ha raccolti e portati in questa scuola. Sono professore di educazione fisica, so che uno dei miei allievi è morto. Kmari Oleghi Gerniani viene invece da Ptschi, ed è qui con il marito, che dimostra vent’anni più della sua quarantina, e quattro figli. Avevano 17 mucche, in fondo erano benestanti: Noi di chilometri ne abbiamo fatti trenta, di notte… Non voglio parlare della guerra, è assurda. Ma con gli abkhazi non si può più convivere, ci hanno reso la vita impossibile: tre vicini sono stati ammazzati dalle loro milizie. E la valle di Kodori dove abitiamo è georgiana, non abkhaza!. Ancora a Tbilisi. All’ospedale per grandi ustionati, il direttore Besik Jashvili mi permette d’incontrare alcuni militari rimasti feriti. Fanno impressione le ferite rosse e le medicazioni gialle. Tra di loro c’è Erekle Ioladze, pilota di tank, unico sopravvissuto all’incendio del suo mezzo: i due colleghi sono bruciati vivi. Ne avrà per un anno di cure e trapianti. Riesce comunque a raccontarmi l’avanzata verso Tskhinvali e la controffensiva russa. Cerco di fargli ammettere che l’attacco è stato dapprima georgiano… Dice e non dice, confonde le date, confessa di non sapere perché fossero arrivati nella capitale ossetina meridionale: Non voglio problemi, si scusa. E prende a raccontarmi degli atti di eroismo dei soldati georgiani per salvare i loro commilitoni e le popolazioni civili. Ogni tanto si lamenta. La cinica geopolitica Perché tutto ciò? Le acque pure e i marmi bianchi dell’Ossezia del Sud, le gustose nocciole e le lunghe spiagge della Abkhazia possono giustificare questa guerra d’agosto? In sé, certamente no. Si tratta di due fazzoletti di terra popolati da trecentomila persone circa e in fondo assai poveri. Niente ricche miniere, niente grassa agricoltura, niente industrie pesanti. Perché i grandi di questo mondo dovrebbero interessarsi a questi due territori? Certo, sono attraversati da importanti gasdotti e oleodotti… Eppure la guerra è scoppiata. Di nuovo, dopo le altre due (nel 1992 e nel 2003) concluse con trattati che avevano sancito lo status quo: niente indipendenza riconosciuta, ma autonomia di fatto sotto la protezione delle truppe di pace della Russia. Gli europei avevano rifiutato di intromettersi nell’affare. All’origine dei conflitti, anche in queste regioni, c’è l’annoso problema del Caucaso, del Nord e del Sud, che conta la bellezza di 150 etnie diverse, ognuna delle quali, al crollo del potere sovietico, ha cominciato a pretendere favori e autonomie. Anche gli abkhazi e gli ossetini del Sud, ovviamente, che vedevano nell’alleanza coi russi la possibilità di far valere le loro richieste. Dimenticando che nelle due regioni viveva da secoli una maggioranza di georgiani, oggi quasi scomparsi con le tre ondate di profughi generati dalle guerre. Su questo panorama già di per sé complesso, se non addirittura esplosivo, s’è inserito il problema ben più vasto delle relazioni tra Russia e Nato (vedi box). L’impulsivo baby-presidente Nella guerra d’agosto, parte delle responsabilità ricadono sul giovane e dinamico presidente georgiano, Mikhail Saakashvili, che con tutta probabilità è caduto nella trappola tesagli dai russi, attaccando per primo la capitale dell’Ossezia del Sud, forse per cogliere di sorpresa il nemico e confidando nell’appoggio degli alleati occidentali, europei in particolare. Certo, l’attacco georgiano rispondeva allo stillicidio di provocazioni che da mesi e mesi le milizie ossetine avevano intrapreso nei villaggi misti o in quelli georgiani della regione: un morto qua e un rapimento là, una sparatoria lassù, un incendio laggiù. Ma il presidente e i suoi alleati della Nato sapevano che, appena al di là della frontiera e dell’iperprotetto tunnel di Zemo Roka, le truppe russe erano pronte a intervenire: due ore da Tskhinvali. A meno che… Così ora, seppur di fronte all’unanimismo di facciata dei georgiani, per i quali la vicenda delle due regioni contese è una questione di vita o di morte, il presidente comincia ad essere contestato dai suoi concittadini che, tra qualche mese, con ogni probabilità gli chiederanno conto della situazione attuale, in cui il recupero delle regioni contese appare ormai una missione impossibile. Nino Burjanadze, già presidente del Parlamento che aveva affiancato Saakashvili nella rivoluzione delle rose per poi allontanarsene, mi spiega: Non è il momento di mettersi gli uni contro gli altri di fronte all’aggressione russa; ma arriverà il tempo di accollarci le nostre responsabilità. Per il momento il popolo deve restare unito nella risposta alla aggressione russa, soprattutto assistendo i profughi che non hanno più nulla. Disinformacja Cinque ore mi ci vogliono per percorrere i trenta chilometri necessari ad aggirare il blocco di Gori. Un pellegrinaggio nella miseria dei villaggi georgiani (prezzi simili ai nostri e salari da 50 euro). L’autista cerca un’emittente radio. L’unica che riesce a captare è russo-ossetina: pura disinformazione. Così simile a quella dei media georgiani, quasi integralmente legati al presidente. Anche i dispacci delle agenzie internazionali peccano di approssimazione. A Gori e a Poti verifico di persona quanto le notizie spesso non corrispondano alla realtà. In quest’ultima località vedo coi miei occhi le cinque navi vere affondate dai russi. Le strutture commerciali, in ogni caso, non sono state danneggiate: le guardie giurate del porto mi confermano che le attività non si sono mai interrotte. Certo, i carri armati russi sono all’imbocco della città e potrebbero isolare la città… Ma i dispacci che parlavano di distruzioni, di centinaia di morti? Disinformacja, arte sovietica ancora efficacissima! Aggirando la città di Stalin, posso riflettere su una regione naturale tra le più belle al mondo, venata dai ricordi di culture millenarie, minacciata dal sottosviluppo che pare endemico e dalla fragilità delle democrazie postsovietiche… Ci sarebbe bisogno di legalità, internazionale e interna, sfruttando i canali ancora aperti, come quelli della Chiesa georgiana. Solo così la menzogna plurima di questa guerra potrà essere sconfitta, o perlomeno contenuta. GEORGIA STRETTA TRA NATO E RUSSIA Per spiegare l’ultima guerra georgiana, non si può non prendere in conto le relazioni conflittuali tra la Russia e la Nato. I russi in effetti recriminano le ingerenze statunitensi e della Nato nei Paesi protetti in precedenza dall’ombrello sovietico: l’indipendenza di Estonia, Lettonia e Lituania, i missili piazzati in Polonia e in Cechia, la richiesta di adesione alla Nato da parte di Georgia e Ucraina… Putin e Medvedev, ripreso in mano il Paese, rinfrancati dalla nuova dipendenza dei Paesi europei dalle fonti di energia russe, con questa guerra hanno voluto mettere l’altolà alle mire della Nato. Lo hanno fatto occupando un Paese straniero, violando apertamente le risoluzioni dell’Onu, calpestando il diritto internazionale, richiamandosi invece alla dichiarazione di Helsinki sulla autodeterminazione dei popoli. Un modo di fare inaccettabile e pericoloso, ma sopportato dagli europei, timorosi di irritare oltre misura i russi. A complicare le cose, s’è frapposta l’indipendenza assai discussa del Kosovo, immediatamente riconosciuta dagli Stati Uniti e dai maggiori Stati europei. Perché loro e non noi?, si sono detti abkhazi e ossetini del Sud. L’assenza di un quadro di riferimento giuridico internazionale condiviso – assenza denunciata con forza e più volte negli ultimi mesi dallo stesso Benedetto XVI -, ha così aperto la strada ad altre richieste di indipendenza. Non pochi avevano previsto che Abkhazia e Ossezia del Sud ne avrebbero approfittato. Ed ecco le puntualissime dichiarazioni di indipendenza dei due pseudo-parlamenti, e pure l’immediata approvazione della indipendenza da parte della Russia e di qualche suo alleato. E l’effetto-domino potrebbe continuare, visto che nella stessa regione ci sono almeno altre sei o sette entità che reclamano l’indipendenza. A cominciare dalla terza zona conflittuale esistente in Georgia, l’Agiaria, ai confini con la Turchia, a maggioranza musulmana; per passare, più a Sud, al Nagorno-Karabakh, zona abitata da armeni, che di fatto hanno cacciato gli azeri che Stalin vi aveva fatto trasferire; senza dimenticare la Crimea e l’Ucraina orientale. E, tra la stessa Ucraina e la Moldavia, la Transnistria, striscia di terra indipendente di fatto, centro di commerci illegali d’ogni sorta, legata anch’essa ai russi. Infine, nel Nord del Caucaso, come dimenticare la Cecenia, l’Inguscezia, il Daghestan e la Cabardino- Balcaria? Certo, la zona ciscaucasica è formalmente russa, ma le tensioni etniche sono forse ancora più gravi. PAURA E VITTIMISMO Il commento di mons. Gugerotti, nunzio apostolico nel Caucaso meridionale, tra i più esperti conoscitori della regione. Anche questa volta la Georgia uscirà viva dalla guerra – prevede (o si augura?) il nunzio -; ma a che condizioni? Quante sofferenze di innocenti bisognerà mettere in conto? In queste terre, purtroppo, una lunghissima serie di dominazioni ha messo le premesse per lo sviluppo di meccanismi di paura e vittimismo manifestati, a turno, da tutte le etnie che lo popolano, che hanno in fondo al proprio animo il terrore di scomparire, di essere sterminate. Anche georgiani, abkhazi, ossetini, agiari… C’è inoltre una ancora scarsa considerazione del valore della persona umana, tanto che la massificazione operata dalla politica è sempre possibile. E così, chi tra i potenti di questo mondo vuol speculare sulla situazione per trarne profitto, può farlo con facili risultati. Purtroppo stiamo rendendo la zona meridionale del Caucaso instabile come quella settentrionale.

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