La strada di Iris
Potevo stare ad osservarli per ore: muoversi a sciami da una parte all’altra della piazza, giocando a calcio con un barattolo o con qualsiasi cosa che rotolasse. Erano tanti e li incontravo ogni giorno i chicos de la calle, bande di ragazzi abbandonati entrati ormai a far parte dell’arredo urbano. Li puoi vedere quasi ovunque per le strade dell’America Latina, dormire sotto i cartoni, fare la doccia nelle fontane, raccogliere avanzi di cibo dalla spazzatura, rubare, chiedere l’elemosina, drogarsi davanti a tutti, morire di fame. La loro presenza m’inquietava, entrava dentro le pareti di casa, s’intrufolava nella mia vita di studente universitaria, poco più che ventenne che – pur non avendo mai nuotato nell’abbondanza, non aveva mai conosciuto la fame. Dopo un’incubazione di circa un decennio, il “caso Argentina” è esploso circa un anno fa anche sulle prime pagine dei quotidiani europei e si è “scoperto” che in questo paese – 37 milioni di abitanti che producono alimenti per 300 milioni anche in piena crisi – la gente muore di fame. Devo dire che le analisi sociali non sono mai state il mio forte e non hanno mai avuto l’effetto di mettermi l’animo in pace. Avevo perduto mia madre a cinque anni, morta per un cancro. Anni dopo mio padre si è risposato ed i rapporti in famiglia si sono fatti tesi. Era più facile chiudermi in stanza, nel mio mondo o andare a scuola, piuttosto che affrontare questo nuovo equilibrio in casa tutto da ricostruire Contemporaneamente si faceva strada in me sempre più il desiderio di conoscere qualcosa di quel Dio che fino ad allora avevo guardato da lontano, come un parente che abita in una altro continente ma col quale finora non avevo mai avuto rapporti stretti. La facoltà di psicopedagogia all’Università cattolica del mio paese mi attirava e mi ci sono iscritta; ma le teorie sociali, le lunghe lezioni sulle cause dei comportamenti umani mi lasciavano dentro un vuoto incolmabile. La mente tornava sempre là, in quella piazza, i miei occhi restavano puntati su quei bambini, che probabilmente non sapevano neppure cosa significasse la parola “madre”. È stato attraverso un incontro del Movimento dei focolari che ho trovato la spinta a prendere la decisione che da tempo rimandavo. In uno stralcio video, Chiara Lubich stava raccontando del suo ultimo viaggio in Brasile, quando di fronte alle favelas, vere città di cartone scandalosamente adagiate ai piedi dei grattacieli, si era chiesta che cosa avrebbe detto Gesù in quelle circostanze. La risposta era evidente: “Ve lo avevo detto di volervi bene. Amatevi come io vi ho amati”. In quel momento, il mio farneticare nella ricerca di soluzioni impensate non aveva più alcun senso. Mi sono decisa per questa via: amare tutti come lui che aveva dato la sua vita per noi. Era evidente: qui si parlava di un amore totalizzante, che non prendeva in considerazione solo alcuni settori della vita, mentre ne escludeva altri, come per esempio il rapporto con la moglie di mio padre; era da lì che sarei dovuta ripartire se volevo essere coerente. Poi l’occasione che tanto aspettavo: mi è stato chiesto di lavorare in una istituzione che si curava della prevenzione dei bambini di strada. Mi ci sono buttata con passione, dedicando tutta me stessa a questo progetto. Ero ormai maggiorenne, e avevo anche ricevuto qualche proposta di matrimonio, ma” sposarmi? Formare una mia famiglia? Si, forse, ma più tardi: ora non avevo tempo né interesse per altro. Ho accettato di fare da madre adottiva a cinque fratelli, due bambine e tre ragazzini dai due ai 16 anni, abbandonati dalla mamma e con il papà alcolizzato. Li ho visti rifiorire: i più grandi, che avevano già provato due volte a scappare dall’orfanotrofio dove erano stati messi, si sono tranquillizzati; la bambina di cinque anni che era stata ricoverata in ospedale per una malattia contratta per mancanza di igiene, si è ripresa; la piccolina, di due anni che era caduta in una specie di depressione e che non voleva più mangiare, ha ricominciato a sorridere e a parlare” In questa avventura non mi sono sentita mai sola: oltre agli amici dei Focolari, alla comunità parrocchiale, ho ricevuto l’aiuto di tanti conoscenti. Altri mi hanno aiutato a dare una sistemazione legale a tutta la faccenda; perfino un noto imprenditore della città ad un certo punto mi ha chiamato per dirmi la sua decisione di aiutarci economicamente mettendoci tra l’altro a disposizione, da subito, una casa, un pezzo di terra, un mezzo di trasporto e portandoci cibi, vestiario e cose varie di prima necessità. È nata così un’associazione alla quale abbiamo dato il nome di Provvidenza”. Inoltre, a livello politico, partecipavamo ad alcuni incontri di un Consiglio per la difesa dei diritti del bambino e delle famiglie a rischio. Tutto sembrava procedere per il meglio – oggi direi per tutto il tempo necessario per risanare anima e corpo di quei bambini che mi erano stati affidati -, ed ero sicura che avrei continuato così per molti anni” Molti anni, è vero, ma” poi? I ragazzi sarebbero cresciuti, i problemi forse si sarebbero anche moltiplicati. Sarebbe bastata la mia presenza o a loro occorreva qualcosa di più? Una famiglia ad esempio. Ero turbata e incominciavo a sentirmici un po’ stretta nel ruolo circoscritto di “madre putativa” di un piccolo nucleo, sentivo di essere fatta per qualcosa di più, volevo raggiungere più persone, tutta l’umanità. Ma come? Non volevo far del male ai ragazzi dopo che li avevo così amati ed aiutati ed ho passato un periodo di vera angoscia, non sapendo bene che decisione prendere. Ho pregato allora intensamente, e mi è venuta un’idea: proporre ai padrini e alle madrine di battesimo di ciascuno – li avevamo infatti fatti battezzare noi – di accoglierli nelle loro famiglie. Sembrava una pazzia ma probabilmente non lo era perché tutti, sia pure dopo qualche perplessità, hanno accettato, bambini compresi che conoscevano e provavano simpatia per queste persone, da tempo in contatto con loro. Si è anche trovata una soluzione legale per loro e tutto è andato per il meglio. Anche ora ricevo spesso notizie e so che tutto procede positivamente nelle famiglie che li hanno accolti, li amano e li aiutano a crescere. Confesso che in certi momenti mi è sembrato quasi di capire cosa poteva aver provato Abramo quando Dio gli ha chiesto di sacrificare Isacco, ma devo dire che anch’io – passi il paragone – ho visto il suo intervento che ha procurato loro un bene ancora più grande.