La storia secondo Marco Bellocchio
Bellocchio indaga sul potere. Quello politico a suo tempo sul caso Moro (Esterno notte) e ora su quello religioso tornando al 1858, quando un bambino ebreo, Edgardo Mortara, fu sottratto alla famiglia perché battezzato da una serva cattolica in punto di morte e quindi, secondo l’uso dell’epoca e la legge dello Stato pontificio, educato a Roma nella fede cattolica in cui rimase fino a 90 anni d’età. Il “rapimento” – cosa per noi oggi inconcepibile – fu voluto da Pio IX che protesse il giovane come un figlio adottivo nella fede, il quale a sua volta gli fu sempre riconoscente. Il “caso” suscitò un interesse internazionale contro il papato e l’interpretazione di Bellocchio, che vede il passato con gli occhi di oggi – cosa possibile per un regista ma non per uno storico –, vira sulla condanna del comportamento intollerante del papa e del cattolicesimo antiebraico, un papa che egli dipinge del tutto in negativo sotto ogni aspetto, presentandolo anche ossessionato dall’incubo di venire circonciso dagli ebrei.
Bellocchio confeziona un melodramma risorgimentale e verdiano, con rimandi stupendi alla pittura contemporanea (Fattori, Hayez, fra gli altri), ambientazioni interne ed esterne curatissime (i porti sul Tevere prima del 1870), musiche sacre molto tradizionali, e un cast di attori di prima classe, dall’inquisitore Fabrizio Gifuni, al cardinale Antonelli di Filippo Timi, al piccolo Enea Sala, senza dimenticare gli altri e il film si dipana attraverso datazioni precise sino a Porta Pia nel 1870. Cosa che significa come il regista proponga la classica visione del Risorgimento come lotta contro il papato e quest’ultimo come segno di violenza del potere religioso (le penitenze imposte dal papa al giovane Mortara, in uso all’epoca) e strumento di ottusità. Tutto vero?
Se è indubbio l’atteggiamento antiebraico della Chiesa (non tutta, si legga sant’Agostino) oggi del tutto scomparso, è anche vero che gli artefici del Risorgimento furono anch’essi molto intolleranti verso la Chiesa e forse Bellocchio avrebbe dovuto dare una visione più serena delle cose.
Ma il suo rapporto con la religione non è mai stato sereno fin da I pugni in tasca del 1965. Qui il lato amaro presente in ogni sua opera ritorna come atmosfera perenne, per esempio quando presenta il giovane Mortara in preda a dubbi tenaci sino alla fine, mentre è noto che egli rimase convintamente cattolico a differenza di altri ebrei “convertiti”che dopo il 1870 ritornarono alla fede antica.
Comunque sia, Bellocchio si rivela capace di bellissime introspezioni psicologiche sia nel ritrarre la famiglia (la figura della madre), sia nell’analizzare il piccolo, le sue angosce, per il quale inventa una scena notturna affascinante in cui egli toglie i chiodi al Crocifisso (come in Marcellino pane e vino?) forse a segnare una pacificazione tra cristiani ed ebrei. O una “chiamata religiosa”?
Credo tuttavia sia giusto dire che Bellocchio ha una visione ideologica della storia, anche se egli afferma il contrario, arrivando al punto di dire che anche il papa dovrebbe vedere il suo film (ma forse Bergoglio conosce un po’ di storia della Chiesa, la quale ha ammesso gli errori del passato) e non dovrebbe più dire frasi del tipo “Nel nome del Signore”, cioè non dovrebbe fare il papa… Va bene che Bellocchio è un regista di grande talento, ma forse esagera un poco!
Buon film, comunque, dai numerosi meriti, soprattutto cinematografici.
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