La stanza delle Muse

La collezione Molinari Pradelli in mostra agli Uffizi di Firenze con cento dipinti barocchi raccolti e valorizzati dal raffinato direttore d’orchestra
La stanza delle Muse

Francesco Molinari Pradelli era un grande direttore d’orchestra. Conservo ancora un suo autografo che mi ha dedicato negli anni in cui frequentavo il liceo insieme ad un suo figlio. Restano memorabili le sue interpretazioni e le sue incisioni con grandi cantanti lirici: rigore, pulizia, senso del teatro, gusto.

Ritrovo queste qualità nella bellissima collezione d’arte barocca che il musicista ha raccolto durante la vita e che è esposta a Firenze, agli Uffizi, fino all’11 maggio (con uno stupendo catalogo Giunti).

Dunque, il direttore amava l’arte barocca, Sei e Settecento e scovava con un fiuto inimitabile – riconosciutogli da critici illustri, come Roberto Longhi – opere di alta qualità dai mercanti d’arte a Vienna, a New York, a San Francisco. Cose che qualcuno avrebbe forse definito “croste”, cioè pezzi di scarso valore, ma che Francesco intuiva avere, al di sotto della sporcizia e dei guasti, un notevole valore. Le comprava e con esse arredava la casa nella sua Bologna e nella villa di Marano di Castenaso.

Eccole ora allineate con cura e gusto, e con una ricca esposizione di filmati e incisioni del direttore, agli Uffizi. Ci si perde, tanta è la varietà dei soggetti, in particolare dei modelletti delle opere che Pradelli prediligeva, parendogli lo spunto quasi più riuscito, più ispirato, dell’opera compiuta. Ci sono le tele dell’Empoli e di anonimi caravaggeschi con nature morte di fiori, frutta, carni e pesci, un genere che nel Seicento andava molto forte e “arredava” bene gli ambienti.

C’è fra tutti una Natura morta con pani di Giuseppe Recco sul 1670 (ma chi lo conosce?, eppure rischia di essere un grande) che sembra un Morandi tanto è denso, volumetrico, “metafisico”.

Ci sono i Vasi di fiori di Mario de’ fiori, l’amico di Caravaggio, dai colori così squillanti ed elettrici che sembra ci vengano addosso (quasi un “espressionismo vegetale” ante litteram).

Passando al genere sacro, Pradelli ha collezionato un melodramma dolce come il Trasporto di Cristo del Procaccini, sul 1610, languido ma non stucchevole come un’opera di Haendel; una colorata Piscina probatica di Palma il giovane, rilucente di ricordi tintoretteschi; un San Paolo di Bernardo Strozzi, uno di quei vecchioni secenteschi dalle immense barbe e dagli sguardi imploranti; e infine, tra le pale svolazzanti, la quiete di un Riposo durante la fuga in Egitto del “pastorale” Pier Francesco Mola, pittore arcadico come i melodrammi di un Alessandro Scarlatti.

Ma Pradelli cercava anche altri soggetti. Ed ecco Fra’ Galgario con l’imparruccato Carlo Tinti, triste sotto l’immenso copricapo, la straordinaria – questo sì un capolavoro – Donna anziana del Gandolfi (1797), che guarda e piange tutto il dolore dei poveri, per chiudere – oltrepassando le freschezze dei pittori veneziani come Sebastiano Ricci – con qualcosa di fortemente emiliano, il Ratto d’Europa del Cagnacci, esempio famoso di mito e di amore sensibile e caldo per la terra, la donna, la vita.

Certo le Muse, cioè l’amore per la bellezza, l’arte, la musica, hanno guidato la mente e il cuore del grande direttore, un autentico “Giano bifronte”.

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