La stanza del silenzio

Uno spazio di meditazione (condiviso) per i momenti di sofferenza
La stanza del silenzio all'Onu

Nel 1954, l’allora segretario delle Nazioni Unite Dag Hammarskjöld fece predisporre la prima “camera di meditazione” (stanza del silenzio) per i dipendenti del quartiere generale dell’Onu a New York. A partire da allora, le stanze del silenzio sono apparse in aeroporti, alberghi, università, ospedali, nei parchi cittadini o piazze di grandi città, in ogni angolo del mondo. In Italia l’esigenza di aprire luoghi “condivisi” per il raccoglimento, la meditazione individuale o la preghiera, il commiato da persone care, si è fatta strada in particolare laddove sussiste una maggiore sofferenza fisica e psichica, come ad esempio gli ospedali.

I progetti sinora realizzati nel nostro Paese prevedono, generalmente per l’utenza ospedaliera, un servizio di assistenza morale o religiosa da parte di un rappresentante di una fede religiosa o delle convinzioni filosofiche delle persone che a vario titolo si trovano a vivere (per lavoro o per necessità di cura) in una struttura sanitaria.  Le stanze del silenzio, frequentate da praticanti di tutte le fedi e anche da persone atee o agnostiche, sono spazi aperti di riflessione, meditazione, preghiera, che affiancano le cappelle cattoliche esistenti. Negli ospedali sono aperte ai pazienti, ai familiari e al personale della struttura, con la naturale considerazione di mantenere il silenzio al loro interno, anche per non arrecare disturbo agli altri.

Sono spesso proposte da un comitato spontaneo di persone appartenenti a diverse confessioni religiose (ebrea, islamica, buddista, ecc.) e ad associazioni non confessionali (ad esempio, Unione degli Atei e Agnostici). Solitamente nascono attraverso un “protocollo d’intesa” e un “regolamento della stanza del silenzio”, redatti congiuntamente dalla direzione della struttura e dai membri del Comitato promotore, composto da rappresentanti delle varie confessioni religiose e di movimenti non confessionali.

Comparando alcune esperienze già realizzate in Italia, spesso con la collaborazione anche dei diversi consigli diocesani cattolici, possiamo trovare i seguenti punti in comune: assenza di simboli religiosi specifici di una determinata fede, presenza di testi sacri delle diverse tradizioni, spogliatoio per lasciare scarpe o per eventuali indumenti/paramenti sacri, un arredo essenziale ma comodo, con divani, panche, sedie o cuscini; una zona ricoperta da tappeti per chi usa praticare scalzo.

In Italia abbiamo oggi alcuni esempi di stanze già attive presso alcuni ospedali pubblici: dal primo esempio delle Molinette di Torino del 2009 agli ospedali di Ferrara, Argenta, Lagosanto, Cento, Cona, al Santa Lucia e Santo Spirito di Roma, al Careggi di Firenze, all’Ospedale Maggiore di Parma. Altre sono in realizzazione in alcuni ospedali di Milano, Cosenza, Padova.
Chi, cattolico, si è trovato nell’esperienza opposta di aver avuto bisogno, per cura, di un periodo più o meno lungo in un ospedale straniero (ad esempio, Stati arabi, Paesi orientali, ecc.) senza la cappella religiosa del proprio credo, è tra i principali promotori di tale iniziativa in Italia, avendo provato, durante la malattia, l’esigenza di trovare spazi simili in ambienti non cristiani.

Offrire un tale spazio all’interno di strutture pubbliche significa anzitutto riconoscere come la società italiana sia cambiata dal punto di vista culturale e religioso, con una pluralità ormai visibile e stabile di presenze religiose (chiese ortodosse, comunità ebraiche e islamiche, templi sikh, centri di meditazione buddhisti, templi induisti, ecc.).

Ma tale iniziativa può soprattutto fornire una risposta “umanizzante” alla cura della persona, che non si esaurisce solo nel fornire una diagnosi e una terapia farmacologia/chirurgica per una patologia fisica o psichica, ma offrire per quanto possibile anche spazi comuni per momenti di riflessione e di diversa spiritualità (che altrimenti oggi avvengono magari in un bagno o in un corridoio) anche per chi è decisamente ateo o agnostico, proprio nel momento in cui la sofferenza e il rischio di morte ci portano spesso più vicino a ciò che è essenziale nella nostra vita.

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