La spiaggia dei gorilla(z)
È forse l’album più trendy del momento. Plastic Beach, terzo capitolo nell’avventura dei Gorillaz di Damon Albarn è quanto di più sfizioso offra l’abulico panorama del rock di questa stagione.
Già l’apertura sinfonica ci dice dello sforzo del gruppo britannico d’uscire dai cliché d’un genere che avrà pure sette vite, ma che sempre più raramente sfugge dalle trappole dell’autocitazionismo. E più l’album procede, più si nota che il progetto ha uno spessore e una profondità piuttosto rara in questi ambiti e di questi tempi: un concept-album (tutti i brani sono parte di un’unica trama) dove la spiaggia del titolo fotografa impietosamente le derive antiecologiche e antivaloriali di un’umanità allo sbando.
A differenza dei Blur, di cui Albarn è tuttora leader, i Gorillaz sono una band virtuale, o meglio, una band-fumetto creata col disegnatore Jamie Hewlett. E immaginaria è anche la location dove l’album è stato concepito, un’isoletta del Pacifico realizzata interamente con rifiuti e detriti. Ma in questa metafora Damon e i suoi non giudicano e non si schierano. Semplicemente descrivono, e in modo fin troppo distaccato: un’asetticità che se da un lato dribbla le sbrodolate tipiche della sociologia rockettara, dall’altra sottintende una disillusione che parrebbe l’anticamera di un nichilismo senza ritorno. In realtà, almeno nelle intenzioni, i 16 frammenti vorrebbero anche contribuire a smuovere qualche coscienza in letargo: «Volevamo creare un album pop – ha dichiarato il leader di recente – ma anche provare a far capire pure a chi guarda X-Factor, quanto sia triste mangiare cibo preconfezionato».
Un progetto comunque ambizioso, arrivato a cinque anni dal vendutissimo e apocalittico Demon Days. Dentro, oltre all’apertura classicheggiante, convivono rock e hip-hop, scampoli multietnici ed elettronica. Impressionante anche la lista degli ospiti, dal carismatico Lou Reed a stelle del rap come Snoop Dogg, due reduci dei Clash, e perfino un vecchio eroe del soul come Bobby Womack.