La speranza di svegliarsi
Il percorso difficile delle persone in stato vegetativo e delle loro famiglie.
Perché dovremmo chiamare “stato” (participio passato dal latino stare), quindi condizione fissa, ferma, definitiva e vegetativo (vegetus, da vegeo), che per i nostri padri latini aveva invece il senso del vigore, della forza, dell’animazione, della vita in una parola, una situazione che proprio sembra non essere così stabile e conclusiva come parrebbe? E che non è certo assimilabile a quella di un vegetale?
La recente “Giornata dei risvegli” cerca di rispondere a questa domanda inquietante. Giunto alla sua dodicesima edizione e patrocinato come i precedenti da presidenza della Repubblica, presidenza del consiglio dei ministri, ministero del Lavoro, della Salute, delle Politiche sociali, l’appuntamento del 7 ottobre, come ogni anno, è stato organizzato e voluto fermamente da “Gli amici di Luca”, associazione bolognese sorta alcuni anni fa per dare voce a quelle famiglie che vivono la drammatica esperienza di un parente in stato vegetativo. Come fu di Luca, appunto.
Secondo una recente stima, sono circa 2.500 in tutta Italia, le persone che una definizione errata (le parole esprimono sempre il nostro giudizio morale!) vorrebbe ridurre alla stregua delle piante verdi, vegetali, cioè, che vivono perché qualcuno dà loro luce, acqua, concime e ogni tanto le pota.
Non sono pochi, se consideriamo che lo stato vegetativo è una condizione “ampia”, che riguarda cioè sia malati, sia chi sta loro vicino.
Se vogliamo dunque continuare a chiamarlo “malattia”, lo stato vegetativo lo è dell’intera famiglia, a vari livelli di coinvolgimento, e dell’intera società.
Vivere accanto a un paziente in questo stato vuol dire infatti essere presi in una dimensione dove la cura, l’assistenza e la riabilitazione non si realizzano quasi mai nei luoghi deputati, sempre che ne esistano e ce ne siano a sufficienza, per prolungarsi, invece, a domicilio, ove la casa diventa un’unità speciale e specifica di assistenza permanente e continuata nella vita di tutti i giorni, di ogni “interminabile” giorno di 24 ore.
Naturalmente una modalità di assistenza così incentrata sulla famiglia ha bisogno assoluto di integrarsi ed interagire con un team multidisciplinare socio-sanitario; di acquisire competenze, affinare esperienze e incamminarsi in un percorso di coscientizzazione sociale e personale. E ha bisogno di speranza, soprattutto.