La speranza di maya e ladinos

Il Paese centroamericano vive una difficile transizione dalla dittatura alla democrazia. Qualità e sfide di un popolo composito.
Riti maya a Ceibal

A bordo della lancia di Luis Felipe, torno a Sayaxché lungo il Rio de la Pasión da Ceibal, uno dei siti maya della regione del Petén. Pensavo di visitare solo reperti di una certa importanza, e in effetti una dozzina di magnifiche steli di grande valore in buon stato di conservazione le ho viste. Ma l’archeologia perde d’interesse di fronte allo spettacolo che mi attende attorno alla piramide alta una dozzina di metri, non di più, nella Plaza Central, dove sono riuniti circa duecento indigeni di tutte le età. Sono maya della regione di Cobán, che si riuniscono periodicamente in questo luogo per i loro riti. Hanno i loro sacerdoti, riconoscibili per la camicia bianca e una sorta di turbante bianco e blu. Girano attorno a un fuoco posto in asse con una magnifica stele e con il tempio piramidale. Vaticinano a seconda della direzione che prende il fuoco, se pende a destra o a sinistra, se svetta o se rimane mimetico al suolo. La gente s’inginocchia dinanzi al braciere di pietra e attende trepidante il responso dei preti sulla salute, sul raccolto del mais, sulla ricchezza che va e viene, sul favore della divinità.
Ogni modernità mi sembra svanire nel presente assolutamente originario di questa popolazione che non so nemmeno se sia cosciente che l’uomo è arrivato sulla luna, o che possa pensare che si debba andare a scuola… In Guatemala gli indigeni di diverse etnie sostanzialmente maya sono non pochi, circa il 40 per cento della popolazione, a fronte di un 60 per cento di ladinos, i meticci.
Ne parlo con mons. Victor Hugo Palma Paúl, vescovo di Escuintla, sulla costa pacifica, luogo di contrasti e povertà. «Da noi vi sono enormi differenze sociali – mi dice –: alla stessa messa partecipano contadini indigeni senza scarpe e ricchissimi bianchi che arrivano con auto da centomila dollari. La Chiesa guatemalteca è disponibile a collaborare, per contribuire al bene comune in un Paese frantumato: etnicamente, climaticamente, demograficamente, economicamente e anche religiosamente». E aggiunge: «La Chiesa è stata nel passato profeticamente forte, quando era osteggiata dal governo, mentre ora che le cose vanno meglio ci si può anche disinteressare, o perlomeno interessare meno, ai problemi sociali del Paese, uno dei quali è certamente l’integrazione tra le diverse etnie, alcune delle quali sono chiaramente boicottate dalle classi più ricche». Un cantiere aperto.
 
La difficile ricerca della democrazia
 
Antigua viene considerata la più bella città del Guatemala, tanto che l’Unesco nel 1979 l’ha iscritta in toto nel suo albo dei luoghi “patrimonio dell’umanità”. Gode di una posizione straordinaria, inserita com’è in un pianoro custodito dalle silhouette di tre vulcani – Agua, Fuego e Acatenango –, che da sempre sono la croce e la delizia della città, più volte distrutta e ricostruita. Gli spagnoli l’avevano eletta nel 1543 capitale dei domini coloniali in America Centrale. Fino all’ennesimo terremoto, devastante, del 29 luglio 1773, che costrinse i dominatori a fondare l’attuale Ciudad de Guatemala.
In un magnifico bar colonial della piazza principale di Antigua leggo un giornale locale: «Condanna a 7100 anni di prigione per 5 paramilitari per il massacro di Plan de Sanchez, 256 vittime, il 18 luglio 1982». Una notizia che mi svela un ulteriore, enorme problema del Guatemala, e in genere di tutto il Centroamerica: il bisogno di purificare la memoria, nel passaggio progressivo dalla dittatura alla democrazia. Un passaggio che è tutto salvo che tranquillo, come testimonia la persistenza delle diseguaglianze sociali e l’aumento esponenziale della delinquenza.
«Non stiamo ancora in piedi da soli – mi confessa il decano della facoltà di Diritto dell’Università San Carlos di Ciudad de Guatemala, il prof. Bonerge Amilcar Mejia –. Bisogna far pulizia, bisogna capire dove abbiamo sbagliato, bisogna che vengano indicati coloro che hanno compiuto atti di violenza e persino di genocidi pianificati», come avvenne ad esempio sotto il sanguinario dittatore Rios Mont, che tuttavia si diceva cristiano.
«Il nostro Paese – continua – ha bisogno di certezze, di un sistema giudiziario adeguato, che rassicuri la gente. Ma le decisioni dei tribunali sono in primo luogo politiche, poi economiche, quindi congiunturali e solo in quarto luogo giuridiche. Se poi consideriamo che il narcotraffico s’è ramificato anche nell’amministrazione statale, allora vediamo che le ragioni dell’insicurezza e della debolezza della democrazia sono evidenti».
 
Le periferie abbandonate
 
Appunto. Per toccare con mano la situazione della sicurezza, visito una delle periferie di Ciudad de Guatemala, quella di Ciudad Real, e più precisamente del Prado de Villa Hermosa. Periferie che accolgono la nuova urbanizzazione, che nel Paese è sostanzialmente concretata sulla capitale. Arrivano contadini indigeni, maya di diverse tradizioni, a più dell’80 per cento. Dove trovano posto? In minuscoli lotti di 4 metri di fronte e 10 di lunghezza, che consentono solo di costruire casette strettissime, che prendono la luce solo dal fronte (che comunque deve essere protetto da inferriate, qui non si scherza), e che non possono avere nemmeno un metro di verde. Per gli indigeni della campagna queste misure sono in pratica quelle di una prigione, senza il milpa sacro, cioè il campetto di mais, senza un cane o un gatto, senza un albero. Gli si toglie il respiro, i bambini soffrono per mancanza di spazi per giocare e sulla strada assorbono le tossine della delinquenza. Che da queste parti è drammatica: nel solo quartiere del Prado de Villa Hermosa scorrazzano una cinquantina di bande, che taglieggiano, che stuprano, che rubano e che uccidono.
«Un mese fa – mi racconta padre Vidal, il parroco –, una delle ragazzine che si preparava per la cresima doveva venire da me. Suo padre aveva voluto accompagnarla. Alla fermata dell’autobus la ragazzina ha fatto per salire quando si è scontrata per puro caso con una di queste bande, che aveva appena assaltato il bus. È partito un colpo e la giovanetta è stramazzata al suolo, morta. Sotto gli occhi del padre. Questa è violenza per la violenza, suscita solo rabbia».
 
La buona volontà
 
Ingiustizia, insicurezza, povertà, fragilità umana. Sono i problemi del Guatemala, che tuttavia è un Paese ricchissimo in natura, umanità, risorse. E questa convinzione dice quanto non sia un luogo condannato alla decadenza. Basta entrare in una scuola per vedere quanto la speranza del Paese siano i giovani (addirittura il 40 per cento della popolazione ha meno di 14 anni!).
Lorena frequenta la quinta elementare e ancora oggi ricorda il suo primo giorno di scuola, al Centro educativo “Fiore”, a Ciudad de Guatemala, promosso dai Focolari. Quel primo giorno si vergognava di avvicinarsi agli altri bambini e se ne stava in disparte; finché una bambina le si è accostata per giocare con lei e così si è sentita subito a suo agio. Tuttora sono due grandi amiche, che si aiutano.
Visito la semplice ma elegante scuola nella periferia nord della città – oggi conta 210 allievi e 28 tra insegnanti e addetti alle varie mansioni –; è nata nel 2003 con lo scopo di «formare persone integre che si affaccino al mondo adulto con valori solidi, quelli che emanano dal Vangelo e si sposano benissimo con i valori insiti nelle culture di origine», come mi spiega la direttrice Maritè Aguilar. Un programma che ha ricevuto il ringraziamento delle autorità, perché quello dell’educazione in Guatemala, come in tutti i Paesi centroamericani, è forse il fronte decisivo dove sconfiggere le piaghe di queste culture.
Non a caso concludo il mio reportage di viaggio in Guatemala con questa visita “educativa”. Effettivamente non si vedono altri spiragli per risollevare una situazione economica, politica e sociale – la crisi della famiglia è grave – altamente deficitaria oltre al miglioramento del sistema educativo. Se la storia recente dei Paesi del Centroamerica racchiude infatti il capitolo dolorosissimo di atroci guerre civili, registra anche la crescita civile di società ricchissime di tradizioni ed etnie.
I bambini della scuola Fiore fanno sperare. Come il piccolo Javier, terza elementare, che ha imparato a riconciliarsi con colui col quale aveva bisticciato, con il semplice gesto di saper chiedere scusa. Il Guatemala ha bisogno che ci si chieda scusa, per rafforzare i valori relazionali e comunitari insiti nel Dna di questi popoli.
 

Il Guatemala in cifre
 
Popolazione 14 milioni
Incremento naturale 20 per mille
Età 0-14, 40%; +60, 6%
Urbanizzazione 49,5 per cento
Etnie Ladinos 60%; Maya 40%
Religione Cattolici 75%; protestanti 22%; altri 3%
Pil pro capite USD 2.888
Crescita annua del Pil 2.6%
Fonti entrate 1) caffè; 2) turismo; 3) agricoltura
Produzione annua di mais 1.687.000 tonnellate
Strade asfaltate 7.000 km
Computer 20 ogni mille abitanti

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