La speranza di Borba
Autore di questo servizio è un nostro amico lettore, già primario del Servizio di Terapia del dolore presso l’ospedale di Belluno. È il resoconto del suo soggiorno di tre mesi, insieme alla moglie, in una località sperduta della foresta amazzonica, dove con la sua prestazione professionale ha affiancato l’opera del vescovo del posto e di un missionario italiano in quella difficile realtà fatta di lotta per la sopravvivenza e per la dignità umana: un contesto nel quale ha scoperto valori e apertura all’ideale dell’unità, come testimonia la partecipazione, questa estate, malgrado le difficoltà economiche e la distanza di 200 chilometri, di una quindicina di abitanti alla Mariapoli svoltasi a Manaus. Albe e tramonti fantastici sul grandioso Rio Madeira, che qui supera il chilometro di larghezza; innumerevoli corsi d’acqua minori, immersi nella infinita varietà di piante che si specchiano nelle acque tranquille. E poi, l’incontro con piccole comunità di indios, che vivono sui minimi rialzi delle rive a due, tre giorni di viaggio l’una dall’altra, senza altra possibilità di comunicazione che non sia la canoa. Di tanto in tanto se ne incrocia una con tre o quattro persone a bordo, che scivola a pelo d’acqua, spinta da ritmici colpi di pagaia. Sono questi gli ingredienti che potrebbero fare di Borba un centro di attrazione per un turismo raffinato nel cuore dell’Amazzonia. E invece, mia moglie Gabriella ed io siamo gli unici “turisti” di questa cittadina di quindicimila abitanti, 200 chilometri a sud di Manaus. Ormai, quando giriamo a piedi o in bicicletta per le sue viuzze, quasi tutti salutano i due “italiani”; in particolare i bambini ci corrono dietro chiamando “Anita” mia moglie e me “Giuseppe Garibaldi”, in omaggio all'”eroe dei due mondi” che una recente telenovela ha reso popolare. Pare impossibile, ma qui, nel cuore dell’Amazzonia, dove è estremamente problematico trovare il necessario, ciò che non manca è proprio la tv. Quasi ogni casupola, per malandata che sia, carente dal punto di vista igienico e sovraffollata (a volte piú di 15 persone sono stipate in 30-40 metri quadri), ha la sua brava antenna ed il suotelevisore. Eppure il livello economico generale è talmente basso che la fame è un male endemico di tanti, anche perché i posti di lavoro sono una opportunità per non più del 15 per cento della popolazione. In compenso, la natalità alle stelle. I bambini sono tantissimi, gioiosi e molto belli, nella varietà di incroci e di razze che caratterizzano gli abitanti. Per cui le vie di Borba, in certe ore del giorno, sono invase da frotte di bimbi di tutte le età, che si divertono con poco o tirano calci al pallone, contendendo lo spazio a miriadi di cani randagi e di urubú, gli uccelli spazzini sempre in cerca di qualcosa da mangiare. A parte quel po’ di agricoltura di pura sussistenza, che produce farina di manioca per l’uso quotidiano, fagioli, verdura e frutta di molte specie, non esiste un’agricoltura piú avanzata; né si notano segni di una imprenditoria, ove si escluda il piccolo commercio fatto da negozietti ricavati nelle stesse abitazioni. Ciò che salva dalla fame più nera, ma anche più assurda, considerando la situazione geografica, è la possibilità che offre la pesca, grande risorsa dei rii dell’Amazzonia per sei mesi all’anno: in questo periodo di abbondanza il prezzo del pescato scende a livelli minimi, consentendo anche ai più poveri di sfamarsi. La politica non si può dire che abbia dato in passato un impulso allo sviluppo del paese; anzi, a sentire chi vive qui, si è occupata soprattutto di arricchire i potenti e, tutt’al piú, di creare posti di lavoro per pochi, distribuiti con criteri nepotistici o per favori elettorali. Non si può dire che abbia giovato neppure a risolvere i più pressanti problemi sanitari: denutrizione, malattie infettive, parassitosi, malaria e dengue. L’ospedale di Borba, poi, pur con la presenza di tre medici che vi lavorano part time, è in condizioni deplorevoli, e difficile risulta ogni attività ed intervento, anche il più banale, per la mancanza delle più elementari attrezzature sanitarie; per cui, praticare ad esempio una anestesia, come io sono venuto qui a fare e ad insegnare, richiede capacità di improvvisazione per consentire al chirurgo di operare ed al paziente di essere operato in maniera indolore. È in progetto un nuovo ospedale, ma nessuno sa dire quando sarà operativo. In questo difficilissimo contesto sociale, 15 anni fa è arrivato dal Mato Grosso come vescovo dom José Afonso Ribeiro, che poco dopo ha richiamato dallo stesso stato padre Piergiorgio Albertini, missionario di Biella nostro amico. Lo avevamo conosciuto in Kenya, mia moglie ed io, oltre trent’anni fa, e avevamo lavorato insieme nella stessa missione per quasi tre anni. Dopo il mio pensionamento, la nostra decisione di raggiungerlo qui a Borba con l’intento di offrire il mio contributo come medico. Dom José e padre Jorge (come qui viene chiamato il missionario) hanno lavorato insieme instancabilmente per combattere i mali endemici della regione. Sempre con l’obiettivo primario della diffusione della Parola e del Regno di Dio, non hanno trascurato gli aspetti umani e sociali, operando per il buon funzionamento delle scuole e costruendone anche ex novo. Si sono prodigati nella lotta alla fame, alla corruzione e alle ingiustizie, dovendo fare fronte spesso a soprusi e a vere persecuzioni personali, e mettendo anche a rischio più volte la loro stessa incolumità fisica. Le iniziative realizzate sono innumerevoli. Tra queste un progetto riguardante il controllo sanitario degli indios dispersi lungo i fiumi della diocesi, la quale, con i suoi 172 mila chilometri quadrati, è vasta quanto mezza Italia. Due volte all’anno una imbarcazione presa a noleggio e attrezzata a dispensario, con medici e infermiere, visita quelle comunità. Padre Albertini, a sua volta, ha fornito buona parte dei medicinali acqistati con elargizioni provenienti dall’Italia. Io stesso ho partecipato ad una di queste spedizioni nel cuore della foresta amazzonica, visitando e curando, insieme ad un altro medico locale, da 120 a 150 pazienti al giorno per un totale di 800 persone. Un secondo progetto, in via di completamento, è diretto all’alfabetizzazione degli adulti: 60 persone otterranno quest’anno il diploma elementare, mentre un’altra ventina di adulti conseguirà il diploma di scuola media. Un altro progetto in corso di attuazione riguarda le scuole professionali per offrire ai giovani una occupazione possibilmente in loco, onde rendere meno appetibili le fughe verso i “paradisi” delle metropoli brasiliane, che si trasformano, per la quasi totalità degli illusi, negli “inferni” delle favelas, della droga, della prostituzione e della malavita. E cosí padre Albertini ha istituito scuole per formare falegnami, elettricisti, idraulici, e ancora, scuole di ricamo, dattilografia e informatica. Ma il progetto più importante che ha messo in piedi negli ultimi 10 anni, assecondato dal vescovo, è il “Lar”, parola che ha il significato di “focolare”: un luogo dove si raccolgono i bambini e dove, oltre alla catechesi, all’attività fisica e ricreativa, viene garantito attualmente, a 1300 di loro, un pasto al giorno. Per portare avanti questa lotta alla fame e alla denutrizione, padre Jorge è ricorso al sistema delle adozioni a distanza dall’Italia, che si sono concretizzate come sovvenzioni al Lar. Ma è stato necessario predisporre anche tutta una serie di progetti, tra cui l’acquisto di grandi congelatori per conservare il pesce acquistato a basso prezzo nei periodi di abbondanza; e poi, l’acquisto di lotti di terreno nella foresta, per farne una piantagione di manioca ed un allevamento di bestiame, in modo da consentire un pasto di carne almeno una volta alla settimana ed iniziare ad avere latticini. Ora si sta progettando un grande frutteto per produrre in seguito anche marmellate di vari tipi, dopo che mia moglie avrà insegnato alle mamme dei bambini del Lar a produrle artigianalmente. Ma nonostante gli sforzi di padre Jorge e del vescovo, tanti sono ancora i bambini che non hanno da mangiare a sufficienza, e che per potersi sfamare si adattano a fare qualsiasi lavoro, o che girano per Borba vendendo frutta ai passanti. È pertanto una esigenza vitale che si creino nuovi posti di lavoro per poter passare in tempi rapidi dall’assistenza all’autosufficienza. Ed è in questa direzione che dom Josè e padre Jorge stanno lavorando. Le premesse ci sono: il clima di collaborazione che circola nella parrocchia e le proprietà che il Lar ha acquistato, se ben indirizzate ed amministrate, sono una risorsa notevole, che può portare a maturazione un progetto di lavoro per molte famiglie. Occorre solo che qualcuno che sappia di management e di imprenditorialità metta mano al loro sfruttamento razionale e porti un contributo d’idee e di esperienza a beneficio dei più poveri. DUE DOMANDE AL VESCOVO Dom Ribeiro, in questi 15 anni, quali cambiamenti ha costatato nei cristiani di Borba? “C’è una buona affluenza nelle nostre chiese e ai sacramenti e il numero dei sacerdoti è aumentato. La pastorale si va organizzando e sono state messe a punto la catechesi, la liturgia, l’azione sociale e quella caritativa. Anche un’intensa partecipazione dei laici ha contribuito all’evangelizzazione. Bisogna invece fare i conti con le sètte, che si sono introdotte anche da noi approfittando della grave situazione di disagio sociale della popolazione”. Quali i problemi più gravi e, viceversa, gli eventi più gratificanti del suo mandato? “Nel recente passato, l’amministrazione governativa ha messo in atto una vera e propria persecuzione nei confronti della chiesa e dei suoi pastori. Problemi gravi sono stati pure la disoccupazione e la carenza di fondi per l’assistenza ai bisognosi. E poi le enormi distanze, che rendono difficile il servizio pastorale ai pochi religiosi presenti in diocesi. “Quanto agli aspetti che danno fiducia per il futuro, in primo luogo ricordo l’istituzione del Lar; poi, la recente fondazione del seminario e ultimamente il riconoscimento a basilica minore concesso al santuario di Sant’Antonio (la chiesa cattedrale, n.d.r.)”.