La speranza corre con te
È il mio ultimo racconto, che ho pensato potrebbe interessare i lettori di Città nuova. È un’esperienza dell’inizio di questo anno lavorativo, con le paure e le speranze che ci bloccano o ci spronano, secondo i casi, quando comincia un periodo nuovo. Nonostante le difficoltà di una malattia che va e viene e si ripercuote nelle attività quotidiane, io vivo questa mia arte dello scrivere come un dono per gli altri: per chi, soprattutto, prova un dolore o una difficoltà e cerca un appiglio o una spiegazione che gli ridia forza, fossero anche quattro parole messe in ordine, purché scritte con amore. Su Città nuova si susseguono discussioni o domande aperte sulla nostra vita, sul nostro essere. Io, che ho sempre vissuto in due mondi a volte opposti, sono sempre rimasta ferma nel seguirvi e nel leggervi, sia nei miei momenti religiosi che nei bui periodi eretici. Perché se una rivista vale, non si può abbandonarla. Così ci scrive l’autrice di questo racconto-esperienza, che volentieri pubblichiamo. Cinguettii di uccelli incoraggiavano l’alba a farsi giorno, mentre i primi uomini, ancora assonnati, cominciavano il loro rito mattutino di acqua e sapone, abiti e pettini, accenni di colazione o un caffè veloce. Fra il sonno e la veglia, Valentina seguiva tutto questo, captando ogni minimo brusio. Quando decise che era pronta ad affrontare la posizione eretta, aprì gli occhi sonnolenti sulle strisce di luce che penetravano dalla serranda. L’appuntamento con Gaia era alle dieci, un tempo sufficiente a prendersela comoda in questo sabato mattina, a metà fra lavoro e festa, ma sempre un giorno speciale per la leggera euforia che lo accompagna. Valentina si preparava a godere questo momento inseguendo lo scorrere dell’acqua nella doccia come se fosse un piccolo torrente in mezzo al bosco in cui starsene sdraiata per lasciarsi detergere. Uscita dalla doccia si asciugò, districò la piccola lite fra i capelli e i denti del pettine, e andò a vestirsi: tuta, scarpe da ginnastica. Ora sì, si sentiva in forma e voleva fare colazione: una pesca tagliata a fettine, fiocchi di cereali e mandorle, un buon caffè forte, senza zucchero né latte, per apprezzarne l’intenso sapore. Alle dieci arrivò Gaia e le due ragazze si avviarono al parco chiacchierando. Nella zona del laghetto i bambini correvano e cadevano, si rialzavano e ridevano, mentre mamme e papà partecipavano sgridando o ridendo anch’essi. I sentieri erano percorsi da gente che passeggiava, faceva jogging o andava in bicicletta, da cani che seguivano i padroni, da padroni che rincorrevano i cani, da anziani che si fermavano ansanti alla prima panchina. E qua e là, seduti sulle panchine o sdraiati sull’erba, tanti altri micromondi che avevano deciso di ricordarsi che per vivere dobbiamo restare a contatto con la natura, fosse anche un fazzoletto verde sopravvissuto in un parco. Valentina e Gaia, raggiunta la strada sterrata, fiancheggiata da pini marittimi, iniziarono la loro corsa a piccoli passi leggeri, coordinandoli con il respiro e con il ritmico movimento delle braccia piegate. Ai lati si stendevano prati il cui verde, dopo l’estate rovente, si era spento in una tonalità fra il verdognolo e il giallo. Ma l’aria sapeva ugualmente di piante, di terra e di alberi. Nella corsa, il gioco di respiro e movimento, di controllo dello sforzo e di liberazione di energia, prometteva di essere un congegno perfetto per espellere stress e tossine, pensieri molesti e dolori. E cominciò a fare effetto. Quello che cominciò a risalire il corpo di Valentina, dai piedi su su lungo le gambe, il busto, e si fermò al petto, non era fiatone, ma premeva e soffocava. Era quel male oscuro che ogni giorno colpiva più forte, più spesso, fermando movimenti e respiro. Ma Valentina stavolta non si fermò: continuò a correre e a respirare anche se con difficoltà, fissando davanti a sé un punto qualsiasi per concentrarsi meglio sul respiro: Einatmen, ausatmen, ricordi?, come quell’esercizio che faceva talvolta a casa, pronunciandolo in tedesco come vide fare in un vecchio filmato in lingua la prima volta che, sentendosi morire dentro, lo seguì come un gioco di lingue ma finì per essere un gioco vitale per riportare al sicuro il respiro: inspirare, espirare. Dentro e fuori l’aria, su e giù i movimenti, e il groppo oppressivo dal petto e dalla gola uscì dalla bocca in un grido e un pianto di disperazione e di liberazione, soprattutto di liberazione… Nella corsa leggera riuscì di nuovo a respirare mentre gli occhi, correndo, si andavano asciugando e il paesaggio intorno, da quadro impressionistico, ritornava una fotografia nitida che scorreva qua e là, davanti e dietro, sopra e sotto. Gaia, che correva più veloce ed aveva una resistenza maggiore, raggiunse di nuovo Valentina e insieme continuarono l’ultimo tratto verso il punto di partenza. Dopo la corsa raggiunsero le attrezzature per la ginnastica e fecero un po’ di stretching per allungare i muscoli e rilassarli dopo lo sforzo. Nei movimenti lenti si frammischiavano le impressioni della mattinata, i ricordi riemersi e la forte esperienza di liberazione vissuta da Valentina. È proprio vero: la speranza è la vera amica, forte anche quando è debole, presente anche quando non l’avverti. Corre con te quando a letto rincorri i tuoi sogni, e per mano ti accompagna fino all’alba del nuovo giorno, per correre ancora insieme.