La sovranità e l’amore
Romeo Dallaire all’assemblea di Winnipeg ricorda il genocidio del Ruanda. Allora generale Onu, fu testimone di un dramma che l’Occidente non riuscì ad impedire né a risolvere, forse più che il diritto serviva umanità
Il generale Romeo Dallaire è il nome legato alla storia del genocidio ruandese, causato in massima parte dall’indifferenza dell’Occidente. Oggi in pensione dagli impegni militari, è membro del Senato canadese e resta una delle figure più popolari del Paese.
Il suo intervento ha avuto un ruolo fondamentale nell’avvio dei lavori del summit dei leader religiosi, inaugurato ieri a Winnipeg. Comandante, fra il 1993 ed il 1994 delle forze armate dell’Onu (2.500 uomini, ridotti a 500 un mese dopo l’inizio del genocidio), il generale si trovò impotente testimone di uno dei massacri più assurdi della storia dell’umanità. Un genocidio che poteva essere evitato.
«Non c’è niente in questo Paese, generale», si sentì dire. Il Paese africano, infatti, non ha petrolio, non gode di una posizione strategica. «Ci sono solo esseri umani», fu la drammatica conclusione dell’analisi dei politici e amministratori che lo inviarono nella missione umanitaria. Si trattava, al massimo, di assicurare un’atmosfera di sicurezza. Ma cosa significa assicurare qualcosa che non è né definibile e nemmeno quantificabile? Infatti, cos’è un’atmosfera, dopo tutto?
Il senatore Dallaire è riuscito a trasmettere la drammaticità e l’assurdità di quelle parole e, soprattutto, di quell’atteggiamento. Era, dopo tutto, il clima tipico del nuovo ordine mondiale, che stava nascendo negli anni Novanta dai resti della guerra fredda. Per decenni, infatti, termini come attaccare, difendere, tenere le posizioni avevano un senso e, soprattutto, una dottrina e un’ideologia fondante. Assicurare pace e sicurezza, un clima sereno fra gruppi ed etnie non aveva e, spesso, ancora non ha un significato, sebbene sia un diritto inalienabile dell’essere umano.
Di fronte alla situazione ormai disperata, mentre i villaggi erano spazzati vie dalla violenza e affondati nella morte e nel sangue, il generale racconta di essersi imbattuto in un bambino di 4-5 anni, fermo sulla strada. Era normale, allora: un segno di una possibile imboscata. I piccoli erano usati per distrarre i convogli delle Nazioni Unite che cercavano di fare il possibile per ripristinare l’ordine. Fortunatamente, non si trattava di un’imboscata. Il piccolo era l’unico superstite del suo villaggio e, da giorni, viveva in una capanna dove i corpi dei membri della sua famiglia erano ormai in stato di avanzata decomposizione. Il generale racconta di averlo preso in braccio: la faccia del piccolo era piena di mosche e la sua pancia era gonfia di vermi. Lo fissò negli occhi. «Erano gli stessi occhi di mio figlio – confessa Dallaire –, quelli che avevo fissato quando gli avevo dato un bacio prima di partire per il Ruanda».
Il senatore ha dato l’impressione di continuare a rivivere il dramma di quei momenti e lo ha trasmesso in modo efficace ai presenti. Le sue non sono state parole, ma la memoria di un uomo che ha visto svolgersi davanti agli occhi un dramma che non ha potuto né prevenire né risolvere. E, se glielo avessero permesso, avrebbe potuto farlo.
Il senatore ha trasmesso ai leader religiosi il dramma della logica degli interessi, che porta diritto alla morte. Non si può mirare a soluzioni transitorie. «Si tratta di andare ben al di là della coesione o della cooperazione o collaborazione internazionale». Il generale ha usato, con coraggio e chiarezza, una lingua che ha poco a che vedere con il linguaggio militare e con quello politico: «Dobbiamo sostituire la sovranità con l’amore», ha affermato con forza. Parole che potrebbero apparire assurde in bocca a un generale e a un senatore. Una sfida significativa, venuta da un uomo che ha sperimentato quanto la sovranità – qualunque essa sia, di una tribù, di una comunità, di una etnia o, anche, di un gruppo religioso – non è più una categoria assoluta. L’amore invece lo è.