La soluzione alla guerra siriana che tutti ignorano

Mentre sul confine turco più di 70mila siriani chiedono di entrare e l’Europa in ordine sparso annuncia misure restrittive sull’accoglienza, il conflitto si acuisce e i negoziati sono in stallo. L’analisi di Vincenzo Buonomo, docente di diritto internazionale alla Lateranense di Roma

Dopo sei anni di battaglie e oltre 250mila morti, il conflitto siriano non sembra conoscere la parola fine e anche i negoziati fissati a Ginevra in questi primi giorni di febbraio sono slittati al 25 perché nessuna delle parti chiamate in causa, e cioè governo e opposizione, vogliono sedersi ad uno stesso tavolo. Tutto questo mentre un popolo continua a morire e a fuggire e le istituzioni internazionali vivono nello stallo dilaniate al loro interno da visioni e posizioni diverse: il Consiglio di sicurezza dell’Onu, pur avendo varato una risoluzione per la cessazione del conflitto si trova a dover gestire le differenti posizioni di Francia e Russia. Abbiamo chiesto un’analisi della situazione a Vincenzo Buonomo, docente di diritto internazionale all’Università Lateranense di Roma.

 

Professor Buonomo, cosa sta impedendo un percorso di pace per la Siria?

Ci sono molteplici letture della situazione e io mi soffermerei su tre di quelle possibili. La Siria è un Paese destabilizzato perché una parte del suo territorio è controllato dal cosiddetto Califfato, con la sua struttura politica e le truppe del Daesh. Per rispondere a questo mancato controllo di territorio si risponde con un’attività militare siriana con il supporto della Russia. L’idea appunto è di combattere il Daesh militarmente, dimenticando che la soluzione per ristabilire la pace in tutta la zona non può che essere politica. La soluzione politica è l’unica via di uscita perché non solo la Siria, ma tutta l’area è destabilizzata dalla situazione siriana.

 

Quali altri interessi non vanno sottovalutati?

Uno degli interessi, di Paesi esterni alla Siria, riguarda l’energia e il controllo completo dell’area. Basti pensare agli interessi di paesi come quelli del Golfo (Arabia Saudita e Quatar), o limitrofi come nel caos dell’Iran. E questa è una seconda lettura del problema. Il terzo elemento da non sottovalutare è la prospettiva con cui le diverse visioni dell’islam guardano al problema siriano: governato da una minoranza alawita vede un’opposizione politica interna e poi sul suo territorio un confronto tra la radice sunnita e quella sciita. Una questione che per altro vale per l’intero Medioriente.

 

Perché i colloqui di pace sono soggetti a continui rinvii?

Sinteticamente perché le parti in causa hanno deciso di non parlarsi. Un negoziato ha bisogno da parte di tutti di una volontà a negoziare, ma se si continua ad attribuirsi reciprocamente colpe e responsabilità tutto resta bloccato e si lasciano parlare le armi, dimenticando che la soluzione del conflitto è anzitutto politica. In particolare il governo siriano non vuole dialogare con l’opposizione politica, questa a sua volta chiede previe riforme ed elezioni democratiche, ma in assenza di sbocchi diversi tutto si è trasformato in una contrapposizione militare. Dal punto di vista strategico l’utilizzo della forza militare dovrebbe fungere da deterrente, forse da minaccia, ma non da soluzione.

 

Quale partita si giocherà il prossimo 25 febbraio, data di convocazione di un nuovo incontro…

In Siria come dicevo sono tanti i fronti aperti: c’è il Daesh,  c’è un’opposizione interna, ci sono le potenze esterne all’area che spingono per elezioni democratiche (come la Francia); c’è chi torna all’idea iniziale delle primavere arabe e della democratizzazione del paese. Tutti questi approcci, però, sono diventati secondari rispetto ad un preminente utilizzo delle armi per arginare la presenza del Daesh, per rientrare in possesso di territori. Questo obiettivo ha messo in secondo piano ogni altra considerazione e di fatto giustifica un generale ricorso alle armi.

 

Intanto continuiamo ad assistere ad assassini e a distruzioni sempre più raccapriccianti…

Bisogna anzitutto dire che il Daesh non è solo attività terroristica ramificata anche oltre il territorio, ma è un controllo su parte della Siria e dell’Iraq, con una struttura simile ad uno Stato, che batte moneta, ha un sistema giudiziario, fa uso di passaporti. Non va dimentichiamo che la struttura militare de Daesh nasce dalla dissoluzione dell’esercito iracheno di Saddam. Dunque, si tratta di  militari ben addestrati e abituati a gestire le armi e a controllare territori che si sono legati ad un’ideologia forte del potere il cui obiettivo è di cambiare il mondo e non di attuare solo azioni sporadiche. I questi gesti efferati di cui è vittima la popolazione civile non stanno solo destabilizzando quell’area, ma il mondo intero quasi tenuto in ostaggio dalla paura degli attentati.

 

Come legge la presenza russa nell’area e le minacce di intervento turco?

La presenza russa non è legata all’oggi: basi militari russe sono dislocate sulla sponda siriana del Mediterraneo dal lontano 1971, anche se ora sono state rafforzate con forze aeree e navali, quindi il legame Siria-Russia non è una novità. La Turchia finora ha accolto quasi tre milioni di persone sul suo suolo drenando un flusso che sarebbe certamente arrivato in Europa: e questo non va dimenticato se si pensa che l’Unione europea ha promesso ad Ankara fondi per tre miliardi di euro. La Turchia, poi, manifesta interesse per la questione curda, e quindi più in Iraq che in Siria, e questo perché il Kurdistan iraqeno gode di autonomia e controlla autonomamente un territorio. Rimane l’aspettativa di riversare in quell’area la presenza curda che oggi è in Turchia, una minoranza forte in grado di esprimere in parlamento anche il  10-12 per cento dei deputati. E infine non va dimenticato il sostegno logistico, militare e finanziario fornito al Daesh da paesi del Golfoper poter fronteggiare una espansione iraniana divenuta ancora più evidente dopo l’eliminazione delle sanzioni e i nuovi accordi con l’Occidente. Qui entrano in gioco le diverse presenze dell’Islam, di cui parlavo prima.

 

E l’Europa?

L’arrivo dei profughi siriani ha messo in moto sentimenti di solidarietà e bontà, pensiamo alla Germania prima dei fatti di Colonia, ma poi ci si è fatti una domanda di altra natura: Quanti ce ne saranno ancora? La Francia poi ha una sua idea sul Medioriente ben diversa dagli altri Paesi. In molti stanno decidendo di chiudere le frontiere. La Grecia è alle prese con un’emergenza costante di arrivi. L’Europa quindi si trova a dover gestire situazioni varie senza una visione unica del problema. A questo si aggiunge il rischio della presenza tra i rifugiati di persone legate ad attività terroristiche e il timore di infiltrazioni non va sottovalutato perché rischierebbe di destabilizzare un’ Europa che su questo fronte sente una forte pressione.

 

Corriamo il rischio di una guerra estesa?

L’idea di bloccare l’allargamento di Daesh agendo in un’area diversa, come la Libia, è visto come tentativo di affrontare la questione. Anche in questo caso, però, la si affronta militarmente perché pur in presenza di un’intesa davanti alle Nazioni Unite che prevede la creazione di un governo che mette insieme le due fazioni presenti, in pratica il governo non c’è. E anche sul fronte militare, in pochi vogliono impegnarsi con l’invio di truppe soprattutto vedendo le spaccature interne al Consiglio di sicurezza e constatando di fatto che non si tratta di una soluzione risolutiva sul lungo periodo.  

 

Secondo lei il Vaticano sta lavorando a qualche progetto di pace? Abbiamo visto papa Francesco particolarmente attivo sul fronte delle relazioni internazionali…

C’è sempre un’attenzione particolare alle popolazioni, sia cristiane che non. Qualche analista sostiene che persino l’incontro con il patriarca russo potrebbe avere tra i punti in agenda la presenza cristiana in area mediorientale e la tutela di questa permanenza in luoghi che, senza di loro, rischiano un serio impoverimento culturale e storico .

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