La solitudine del dopo Covid…
Maria e Paola sono due donne forti, da molti anni in cura presso il day hospital di Oncologia. Non si sono fermate neanche in questi mesi, puntuali agli appuntamenti dei controlli e delle terapie. Ma c’è un’ombra nel loro sguardo, da qualche giorno, che non è quella fragilità della malattia con cui convivono da tanto tempo riuscendo a trasmettere forza e serenità ai loro “compagni di viaggio”.
E così, fermandoci un momento con loro scopriamo che Paola ha perso il papà, senza poterlo più rivedere in quella casa di riposo in cui “prima” si recava quasi tutti i giorni per vederlo, mentre Maria non riesce a togliersi dalla mente un caro amico, morto a 61 anni per il Covid, che in tutti questi anni era stato una presenza di famiglia per lei e per suo marito. Sente sulla sua pelle il dolore della moglie, che tante volte l’aveva consolata.
Poi ci sono i malati dimessi dai reparti Covid, finalmente negativizzati, o l’incredibile sofferenza di chi, apparentemente guarito, è ancora positivo e da mesi vive da recluso in attesa di rivedere il compagno o la compagna di una vita non solo attraverso un tablet. Spesso sono malati gravi, che hanno avuto “anche” il Covid, e che ora si trovano ad affrontare l’ultimo pezzo di strada della vita con un trauma in più, quella ferita sottile di questi tre mesi pazzeschi, di sofferenza, di paura e di isolamento. Altri ancora si preparano a vivere l’ultimo tempo da soli, perché il coniuge portato a volte con la stessa ambulanza in Pronto Soccorso in quei giorni terribili di marzo non è mai più uscito dalla terapia intensiva.
Una nuova forma di sofferenza si fa strada nella nostra società dalla memoria corta: alla sacrosanta voglia di ricominciare e ripartire si sovrappone una sorta di “fastidio” a sentire ancora parlare di Covid… Anche fra i colleghi è molto diverso l’atteggiamento fra chi ha vissuto “dentro” un reparto Covid e chi ha continuato a lavorare in reparti “normali”. Persino fra i palliativisti ci sono diverse profondità di attenzione alle “storie” dei pazienti che provengono da questa esperienza.
Primo Levi, non a caso, ha descritto questa sofferenza nella sofferenza, quella di non essere compresi o, ancora peggio, di essere rifiutati da chi dopo la guerra voleva solo “voltare pagina”, nella sua opera La tregua. Perché quello che stiamo vivendo probabilmente è davvero un periodo di tregua, il virus potrà tornare e sapremo gestirlo meglio nella misura in cui non avremo dimenticato troppo in fretta, ma la ferita di chi lo ha vissuto, o ne è stato in qualche modo toccato, è una fragilità ben presente nell’immediato.
E resterà dentro, apparentemente sopita e quindi più dolorosa, se non impareremo a coglierla, farla emergere, e prenderla in cura con l’ascolto e la condivisione. Come diceva la fondatrice del primo hospice, Cicely Saunders, crescere nella capacità di prendersi cura significa in fondo «avere la mente aperta alle nuove domande ed essere pronti a nuove risposte». Nei prossimi mesi sarà questa una nuova sfida per le cure palliative, chiamate a confrontarsi con flessibilità alle sempre nuove dimensioni del “dolore globale”.