La solitudine dei rifugiati

Non possono lavorare, non possono avere un conto corrente. Sono autorizzati a vivere nel nostro Paese, ma per lo Stato non esistono. Una testimonianza
Rifugiati

«Vorrei chiedere solo una cosa: chi di voi, in questa sala, rappresenta i rifugiati?». Una semplice, ma sensata domanda, paralizza per un attimo i partecipanti alla presentazione del rapporto sul Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar) giovedì mattina in una saletta dell'Anci, a Roma. Si parla di rifugiati, ma dove sono gli interessati? A porre la domanda è un giovane straniero. Anzi, un rifugiato. Perché, spiega, solo chi ha fatto tutta la trafila dell'accoglienza, conosce le difficoltà che si devono affrontare.

«Sono arrivato in Italia nel 2002 – racconta con uno sguardo deciso, nonostante l'evidente nervosismo –, ma ho ottenuto il permesso di soggiorno solo nel 2005, dopo tre anni e mezzo. Non sapete le peripezie che ho affrontato non per arrivare, ma per stare qui». E sì, perché, aggiunge, da quando, all'arrivo, ha raccontato la sua storia, consegnando i documenti, ha vissuto tre anni in una situazione paradossale. «Avevo il diritto di stare in Italia – commenta con amarezza – ma per lo Stato non esistevo. Non potevo aprire un conto corrente, quindi non potevo studiare». Perché? «Perché per iscrivermi all'università dovevo avere un conto corrente con almeno diecimila euro. Quando sono arrivato ero un cadetto pilota e avevo già fatto qualche anno di università in ingegneria chimica. Qui, invece, non potevo fare nulla. Per fortuna ho incontrato un professore intelligente, che mi ha fatto studiare e fare gli esami, "congelando" i voti e registrandoli in seguito».

Per mantenersi, doveva lavorare, ma per legge non poteva avere un lavoro. Dunque? «Ho fatto ogni mestiere possibile, tutti in nero, anche quelli più umili, che nemmeno vi racconto». E la sua stessa via crucis la devono affrontare tutti coloro che arrivano in Italia da rifugiati. In migliaia, dunque, anche se non tutti scappano da un pericolo reale. «La mia proposta – ha affermato – è semplice. Quando uno straniero viene in Italia deve sapere che ci sono regole certe, da rispettare. Se ci si dichiara rifugiati, all'arrivo bisogna consegnare i documenti o farsi subito intervistare, con l'aiuto di un traduttore, per spiegare la proprio storia, che verrà poi verificata. Chi non parla, chi non spiega, non è un rifugiato e va subito accompagnato alla frontiera. Anche chi produce danni, come quelli che hanno incendiato il centro di accoglienza, devono essere rimandati nel loro Paese. Se le regole sono certe, chi si finge rifugiato alla fine non verrà più».

La questione è molto complessa. Le commissioni che fanno le interviste a chi arriva in Italia dichiarandosi rifugiato, sono poche e non riescono a rispondere alle migliaia di richieste avanzate. Accade così che prima di poter raccontare la storia, si sia costretti a rimanere in centri di accoglienza inadeguati, in condizioni difficili. L'obiettivo dello Sprar è prepararsi alle emergenze con servizi già pianificati, ma il cammino si annuncia ancora lungo e tortuoso.

I tumulti che si stanno verificando nei Paesi dell'altra sponda del Mediterraneo fanno prevedere l'arrivo di altre migliaia di persone in cerca di salvezza e anche se con lo Sprar ben presto si potranno predisporre fino a 20 mila posti, restano ancora da coinvolgere le Regioni, che attraverso un loro portavoce, l'assessore molisano Michele Petraroia, hanno dato la propria disponibilità a fare la propria parte, nonché gli altri enti che operano nel settore, dalle Caritas alle associazioni del Terzo settore. Resta anche il problema di cosa fare quando arriva un barcone di immigrati. La guardia costiera, ha spiegato il prefetto Riccardo Compagnucci, vice-capo dipartimento vicario per le Libertà civili e l'immigrazione del ministero dell'Interno, dovrebbe fare tre cose: valutare, salvare respingere, cioè 1) salvare chi arriva e sta rischiando la vita; 2) fare immediatamente uno screening, distinguendo tra chi viene per lavorare e chi invece ha bisogno di accoglienza umanitaria; 3) respingere gli altri. Praticamente, una sorta di missione impossibile e pazienza se l'Europa aprirà delle misure di infrazione contro l'Italia: se ci sono persone che rischiano la vita, la priorità deve essere salvarle. 

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