La solitudine dei giovani
«Perché ti droghi?», chiede sconfortato David a suo figlio Nicolas, 18 anni. «Non lo so», risponde il ragazzo. È bravo, ama la letteratura, l’arte, lo sport, scrive per il giornale della scuola, si sta preparando per l’università. Ma entra a sperimentare la droga, da quella leggera a quelle più pesanti e non riesce a smettere. Suo padre le tenta tutte per salvare il suo “bellissimo figlio” (Beautiful boy è il titolo del film), aiutato dalla ex moglie. Addirittura prova anche lui la droga per vedere cosa sente il figlio, pur di salvarlo.
Una storia vera, che il regista Felix van Groningen porta sullo schermo grazie a due attori eccellenti, come il giovane Timothée Chalamet e Steve Carrell. La domanda è perché un ragazzo così dotato dalla vita scenda nel mondo sempre più oscuro della droga, che è morte. La risposta il padre non se la sa dare. Però può amare il figlio, scendere nel suo buio, lottare e soprattutto sperare. Il film è un inno alla lotta contro la disperazione, contro ogni possibile sconfitta. Ma lancia anche un messaggio ai genitori che spesso non si accorgono come i ragazzi in apparenza soddisfatti, abbiano qualcosa di oscuro che li attrae, li tenta: è, usando un termine che oggi non è di moda, il male. Questo film così bello, intenso e duro diventa allora nel padre una presa di coscienza che il male, la morte adesca i giovani più facilmente di quel che si pensi, e che solo un amore quasi disperato può salvarli, come in realtà è successo ai veri protagonisti di questa storia.
La suggestione delle morte, che è poi frutto del male, pervade anche il film spagnolo/argentino L’angelo del crimine, storia vera di un ragazzo-delinquente tuttora in prigione. A 17 anni Carlos Robleno –siamo nel 1971 – è un ragazzo dall’aspetto di angelo biondo, un efebo amato dai genitori, semplici ed onesti, dalla sessualità ancora incerta, attratto dalla vita di strada e dal furto. Un amico lo inizia all’uso della pistola e le uccisioni che all’inizio avvengono quasi per caso, poi diventano una abitudine, con totale indifferenza, come fosse una cosa naturale. È la banalità del male e della morte.
La parabola omicida del giovane è raccontata dal regista Luis Ortega senza sconti, rapidamente, con contrasti voluti tra l’angelo assassino, la famiglia, la polizia con i metodi bruschi, l’amico che cerca il successo e che poi lui stesso, tranquillamente, ucciderà. Carlos non ha il senso del bene e del male, si stupisce lui stesso di ciò che fa, è istintivamente attratto dalla morte. Eppure viene da una famiglia integra. Cosa entra dunque nell’animo di un ragazzo, qui Carlos, sopra Nic, da spingerlo alla droga o a ben 11 omicidi tra il 1971 e il 1979?
I registi non danno riposte. Solo alla fine l’angelo criminale avverte che c’è qualcosa che non va e piange. Un pianto forse liberatorio, una presa di coscienza di cosa un essere umano sia capace di fare fin dalla giovinezza.
In verità accoppiando i due film, emerge la grande solitudine dei giovani, di cui i familiari faticano a rendersene conto. È un disagio esistenziale troppo grande, perché si tratta di una lotta contro il fascino del proibito, del male, della morte. Il cinema lo narra, e fa riflettere gli spettatori.