La solitudine degli archi
I figli che crescono e il vuoto lasciato nei genitori. Inventarsi un nuovo scopo, una nuova identità anche a sessant'anni si può. Ce lo spiegano nella secondo appuntamento con il libro Labirinti familiari le due autrici
«Voi siete gli archi dai quali i vostri figli/ come frecce viventi son lanciati». Sembra un ardito gioco di parole, un’arguta immagine del poliedrico Gibran di cui abbiamo riportato i versi iniziali di una sua poesia. Eppure lo stato d’animo di tanti genitori che si trovano a vivere "l’abbandono del nido" dei figli si potrebbe leggere così, come una solitudine forzata a cui far fronte e che può richiedere di reinventarsi un ruolo. Il libro edito da Città Nuova Labirinti familiari, di Daniela Maria Augello e Antonella Spanò, analizza le dinamiche che inducono a questi atteggiamenti proponendo un cambio di prospettiva che aiuti a vivere questo nuovo passaggio nell’esperienza genitoriale.
«Guarda quanto è carina Donatella… Si farà una gran bella ragazza». «Per favore non dirmelo, mi sento un pugno nello stomaco quando ci penso. Un padre vorrebbe poterli proteggere per sempre i figli, invece loro crescono e poi se ne vanno».
«Già! E crescendo ci lasceranno soli».
«Rimanere da soli, dentro il nido che si è improvvisamente svuotato e che prima risuonava dei cinguettii festosi, delle beccate, delle zuffe amorevoli e che ora rimane silenzioso non è piacevole, né facile.
La cena quotidiana, che oggi sembra essere rimasto il solo luogo dell’incontro familiare, si fa in due. Due piatti, due bicchieri, due posate, due fettine di carne. Magari si cucina qualcosa in più nella speranza che il figlio possa passare a salutare, consumare ancora un boccone insieme e così avere l’illusione di potere prendersi cura di lui come prima.
La crescita dei figli può essere vissuta come un dramma, separarsi è sempre doloroso, e il ritornare a essere coppia può spaventare perché non ci si ricorda più come si fa a essere solo due.
Forse questo momento si è pure atteso, si è sperato di stare da soli, di vivere l’intimità di un tempo. Insomma la speranza di una seconda luna di miele si avvicina, ma la perdita del ruolo di madre e padre, nel senso del non esercizio giornaliero di cura verso il figlio, se da una parte dona sollievo, dall’altro ci fa scoprire tempi morti. Sono i tempi della noia, del “non so cosa fare”. Le stanze della casa si svuotano e quegli spazi che prima era così difficile far bastare a tutti si dilatano improvvisamente.
«Vivere per e con i figli è un impegno gravoso, ma si viene trascinati dalla quotidianità, da tutte quelle cose da fare che riempiono la giornata, anche se ci lamentiamo. Quando vengono a mancare certi gesti, l’assenza si rende concreta in ogni giornata. Va via l’ultimogenito e ci si trova con poche cose da fare. Spostare le energie verso un’altra direzione non è facile. Si devono reinventare spazi di condivisione con il partner, ma anche impegni al di fuori della coppia. Si comincia a iscriversi a scuola di teatro, a scuola di tango, ci s’impegna in associazioni di volontariato, ci si iscrive all’università della terza età.
Non solo si entra prepotentemente a contatto con la maturità di quei figli, che sembravano piccoli fino al giorno prima, ma si diventa anche consapevoli che non c’è un compito successivo, tranne quello di dare una mano per accudire i nipoti.
«E accudire i nipoti significa che siamo dei nonni. Si è invecchiati. E non si sta parlando degli altri, di quei compagni di giochi che incontriamo per strada e che ci sembrano sempre più brizzolati e rugosi. Adesso è toccato a noi. Siamo vecchi e lo scopriamo quando nostro figlio ha chiuso la porta dietro di lui, lasciandoci nel silenzio.
Tutta l’energia che ancora ci si sente dentro, e che è servita a essere padri e madri a tempo pieno, per vent’anni o più, ci cade addosso e rischia di farci crollare. Che cosa faccio adesso? Che scopo avrà la mia vita d’ora in poi? Se poi sopraggiunge pure la menopausa, gli acciacchi alla schiena e il vecchio genitore che sta “perdendo colpi”, ci si sente proprio a terra.
«Potremmo decidere di rimanere dentro la vita dei nostri figli e quindi andare a casa loro, pulire la loro roba, pagare le bollette, adottare come un figlio l’eventuale compagno/a. Tutto questo ci farebbe sentire ancora utili, ma non consentirebbe ai nostri figli di crescere, di badare a loro stessi. Un’altra soluzione potrebbe essere andare in palestra, comprarci i pantaloni a vita bassa, andare in discoteca, insomma fare tutte quelle cose che non abbiamo potuto fare prima. Questo potrebbe anche andare bene, ma sarebbe come cercare di imitare qualcun altro, i giovani, con il rischio di non potere stare più al passo con loro. Che rimane? Andare alla gita con i vecchi?
Ci sarebbe anche la possibilità che arriva il nipote e possiamo occuparci di lui. Rimettiamo a posto la stanzetta e aspettiamo che arrivi la cicogna. E se i figli avessero imparato bene e quindi facessero i genitori a tempo pieno lasciandoci solo lo spazio di essere nonni e basta?
Resta la gita con i vecchi!
«E chi se l’aspettava che a cinquanta o sessant’anni dovessimo reinventarci la vita? Un nuovo scopo, una nuova identità. Così ci capita di scoprire di essere un uomo e una donna in crescita e che i nostri figli sono adulti come e quanto noi.
«Mi manca mio figlio!»: permettiamoci di dirlo e anche di piangere. Anche noi manchiamo ai figli, ma loro adesso cercano un rapporto paritario, da adulto a adulto: dobbiamo essere pronti a crearlo, questo rapporto, smettendo di metterci sul piedistallo destinato all’autorità genitoriale e scivolando nel più difficile ruolo di adulti che vivono la loro vita.
«Pensare che i figli siano colpevoli della nostra solitudine, rimproverarli perché non chiamano e non ci vengono a trovare, arrabbiarsi per non avere ricevuto da loro il regalo che desideravamo, servirà solo a rimandare il confronto con noi stessi, con il nostro sentirci soli, con le nostre fragilità. Non possono essere i figli a risolvere la solitudine, è un problema nostro. Da dove nasce? Forse dal sentirci senza uno scopo? Reinventiamoci uno scopo, cerchiamo di capire cosa vogliamo e cosa possiamo fare per realizzarlo. Siamo disposti a crescere? O vogliamo solo lamentarci e piangerci addosso?
«Per non parlare del partner che è sempre troppo stanco, troppo vecchio, troppo diverso e non ci aiuta per niente. Anche il nostro partner è fragile e anche lui sta vivendo i nostri stessi tormenti, ma forse lo manifesta in maniera diversa. È solo un altro viaggio da fare con il nostro compagno, ma anche con una valigia piena dell’amore dei nostri figli, della loro stima, anche se ci sembra che talvolta non ce la accordino, e la consapevolezza che abbiamo cercato di fare quanto in nostro potere per crescere la famiglia.
«Ma quando l’altro non c’è più, ci rendiamo conto delle parole che non abbiamo detto, e che avremmo dovuto o voluto dire. La presenza dell’altro nella nostra vita, marito, moglie o compagno/a, è una certezza costante, niente può farci pensare a una sua dipartita da noi. Magari tolleriamo a stento il partner quando è accanto a noi, ma la sua morte ci sconvolge lasciandoci senza fiato. Come faremo a vivere senza l’altro? Una parte di noi è andata via insieme a lui e noi ne diventiamo consapevoli solo quando se ne va. Come è possibile che ci accorgiamo solo adesso che era così importante per noi? Il colore del lutto nell’occidente è legato al nero, tinta che esprime con tanta precisione la realtà che viviamo. Il nero esclude qualsiasi altro colore, non c’è più vita, nessuna gioia, nessuna speranza.
«Solo l’amore e la vicinanza degli amici, dei parenti, di chi è rimasto con noi a condividere il dolore ci può restituire piano piano alla vita. E così accade che un giorno riusciamo a ricordare le parole dolci di incoraggiamento che il nostro amato ci avrebbe rivolto, se fosse stato vicino a noi. E sorridiamo pensando che una parte di noi è andata via con lui, ma una parte di lui è rimasta con noi. In tempo di bilanci, spesso accade che le perdite sembrino più delle entrate, ma arrendersi alle perdite non serve a nulla, partiamo sempre da quello che abbiamo e costruiamo su quella base. Come nel film di Massimo Troisi Ricomincio da tre (1981), in cui il protagonista si ostinava a ripetere che ricominciava da tre e non da zero, perché ripartire da zero non avrebbe dato giustizia di quelle tre cose buone che aveva fatto. Anche noi, non avviliamoci ricominciando da zero, quante cose buone abbiamo fatto? Iniziamo da quelle. Se i nostri figli sono stati capaci di lasciarci, vuol dire che li abbiamo tirati su bene, che abbiamo insegnato loro a essere autonomi.
«Se si sono sposati, hanno appreso da noi ad amare. Se ci rimproverano di non essere stati bravi genitori, vuol dire che siamo stati in grado di dotarli di capacità critica. Essere capace di vedere al di là delle apparenze non è facile, ci si deve allenare a vedere le cose buone dietro a quelle cattive e le cattive dietro alle cose buone. Se nostro figlio è sempre ubbidiente e a quarant’anni vive ancora con noi, circondandoci di mille attenzioni, allora preoccupiamoci. Forse dovremo rivedere il nostro modo di consegnarlo alla vita».