La sofferenza nascosta di un aborto spontaneo
Ad Anna la gravidanza si è interrotta alla decima settimana di gestazione. Lei e Giulio aspettavano il primo figlio e la gioia era tanta. Avevano impiegato diverso tempo per concepire il bambino e adesso tutto si aspettavano tranne che la gravidanza si interrompesse. Davanti alle prime perdite, c’è stata la corsa in ospedale, lì la notizia secca «c’è stato un aborto». Seguita poi da tutta una serie di rassicurazioni e informazioni pratiche per gestire l’evento imprevisto: «è normale, può capitare nei primi tre mesi»; «adesso bisognerà assumere un farmaco per espellere il tutto», e così via.
Adele, invece, era incinta al quinto mese di Matteo. Aveva da poco scelto il nome e quando durante l’ecografia le è stato detto che non c’era più il battito lo sconcerto è stato enorme. Cercava di dare voce a quelle emozioni ma non riusciva, era distrutta e si sentiva profondamente non capita in quello che stava vivendo.
Sebbene siano due esperienze diverse, quella di Anna ed Adele entrambe ci parlano di interruzioni di gravidanze. Aborti e vere e proprie morti intrauterine in cui i genitori non possono piangere i propri figli.
L’aborto spontaneo, soprattutto nei primi tre mesi di gestazione, è un fenomeno comune e molto diffuso tra le donne. In letteratura si stima che circa il 30% delle gravidanze termini con un aborto spontaneo. Nei mesi seguenti la percentuale si abbassa notevolmente, sebbene è un qualcosa che ancora può accadere. Ancora oggi però questo delle morti intrauterine, è un fenomeno di cui spesso poco si parla, relegando chi subisce l’evento ad una condizione di solitudine. Nessun sostegno è previsto per chi si trova a vivere questa esperienza, e spesso si crede che dato che il tempo di gestazione è stato breve, breve e poco intenso sarà anche il dolore.
Quando una persona si trova a confrontarsi con l’esperienza della perdita durante il periodo di gestazione, ci si può scontrare con una sofferenza duratura ed intensa. Il dolore può essere improvviso e presentarsi subito dopo l’evento oppure manifestarsi dopo qualche mese. Spesso ci si può sentire delegittimati nel parlarne. Si può avere il timore di essere esagerati, di stare ingigantendo una situazione che a tutti può apparire di facile risoluzione e forse conviene in tempi brevi voltare pagina.
Le interruzioni di gravidanza, sebbene varino da caso a caso, possono essere un vero e proprio evento traumatico. In queste situazioni non muore solo un bambino che non si ha avuto il tempo di conoscere. Muore anche un’aspettativa, un progetto di vita, un figlio desiderato magari da mesi o anni. Muore la consapevolezza di essere invincibili. Si entra in contatto con la propria fragilità e con la fragilità della vita stessa. Si possono innescare profondi sensi di colpa «cosa avrei potuto fare meglio?» ed a poco possono servire rassicurazioni esterne di esperti. Inoltre, spesso non si ha nessuno da piangere. Non c’è nessun rito da fare, né un momento in cui salutare quello che non c’è più.
È necessario dunque al fine di garantire il benessere proprio e della coppia, non sottovalutare questo tipo di dolore. Darsi il giusto tempo di elaborazione. Parlare se si ha bisogno di farlo, condividere senza timore di risultare eccessivi, oppure se si preferisce stare in silenzio e custodire l’accaduto. Costruire dei riti di saluto simbolici, che possano aiutare a dare un senso ad un’esperienza che seppur breve fa parte della propria esistenza.
Tutto questo può risultare utile sia per dare rispetto e dignità alla propria sofferenza ed al proprio percorso di vita, sia, laddove dovesse accadere, anche per prepararsi alla possibilità di nuove gravidanze future.