La signora del barboncino
Argo è sordo da anni. Come me del resto. Il barboncino grigio, la testa appoggiata su un tappeto ai piedi di un pianoforte a coda, seguiva con gli occhi ogni gesto della padrona. Sulla polvere di un pavimento di marmo rosso orme di zampe e strisciate di ciabatte. Lidia – una signora di mezz’età grigia come i suoi capelli poco curati, stanca nella sua vestaglia di flanella, sbiadita come le foto alle pareti – mi aveva fatto accomodare su una poltrona dopo aver spostato riviste e libri e qualche bottiglia vuota. Avevo bussato alla sua porta perché vendevo libri di Città Nuova. Lei è stanco – mi interpellò quasi arrogante -, non vanno gli affari?. Le spiegai, alzando il tono di voce per farmi sentire, che quel lavoro era uno dei modi per sostenere me e altri arrivati a Loppiano, una cittadella di poche case ma con l’utopico progetto di diventare una città modello. Credevamo nella fraternità universale perché tra noi, così lontani per provenienza, sperimentavamo che era possibile. Il Vangelo vissuto ci faceva fratelli. Lei si irritò. Fratelli? Gente che non si conosce, fratelli! Le utopie ammorbano la vita. Anche la Pira voleva fare di Firenze la città dell’incontro dei popoli. Il suo sguardo andò verso la finestra che inquadrava i tetti della città toscana. Alla sua età anch’io mi ubriacavo di sogni. Ma apra gli occhi, non sia ingenuo, perché la vita non mantiene nessuna promessa. Le raccontai che a un certo punto della mia avevo preso coscienza di Dio e che questo era il motivo per cui mi trovavo a Loppiano. Lidia accennò un mezzo sorriso, forse perché parlavo come uno che avesse vissuto un secolo. Non interruppe le mie frasi titubanti, anzi con un gesto signorile mi incitò ad andare avanti: Cercavo il senso della vita. Attraverso una serie di combinazioni – che ora chiamo regia divina – venni a conoscenza dei focolarini. M’incuriosì la limpida corrispondenza tra quello che dicevano e quello che facevano. Il tipo di rapporto che stabilivano tra loro e con gli altri mi dava l’impressione che potesse dare vita ad una dimensione della mia esistenza che rischiava di atrofizzarsi. Diventammo amici. Da Caltanissetta, dove avevano un proprio centro, spesso venivano a trovarmi ad Agrigento. In una di quelle occasioni, passeggiando, parlavo con Mariano, uno di loro. Improvvisamente lui si ferma, mi guarda negli occhi e mi fa: Tanino, tu lo sai che Dio ha dei grandi disegni su di te?. Una frase fuori contesto, insolita. Eppure quelle parole – me ne resi conto dopo – produssero un grande rimescolamento dei punti di riferimento della mia fede, ferma alle im- magini del catechismo. Scattò qualcosa che cambiò il mio rapporto con le cose, con la gente. Il mio centro si era spostato, come quando si è innamorati e tutto diventa nuovo, bello. Fu evidente che non potevo uscire da quel campo di energia che mi rigenerava. All’idea che un altro già sapesse chi ero io e cosa dovevo fare per realizzarmi, provavo un’impaziente euforia, quasi stessi lì lì per aprire le porte del mistero. Fino a quel momento mi ero raffigurato Dio come un burbero amministratore che allo scadere del mio tempo mi avrebbe presentato un conto, il bilancio della mia vita, minuziosamente registrata. Ma che avesse già un progetto su di me, questa era un’irresistibile notizia! Possibile che lui avesse interesse verso di me, prima ancora che io avessi fatto grandi cose? Ebbi la sensazione di essere stato svegliato da un lungo sonno, e talmente preso da questo Dio che mi amava da sempre, che anche i temuti esami di maturità – li stavo sostenendo in quegli stessi giorni – ora non mi preoccupavano più. Lui aveva preso il posto anche della paura. L’unica preoccupazione fu di non perdere il contatto con i focolarini. Non volevo lasciarmi scappare il treno. Qualche settimana dopo Mariano partì per gli Stati Uniti e dall’aeroporto mi trascrisse su una cartolina un pensiero di Chiara Lubich: Chi saprà mai ridire le infinite bellezze e novità, gli orizzonti sterminati che contempla un’anima abbandonata all’avventura divina della divina volontà?. Decisi di buttarmi nell’avventura. Le contrarietà suscitate da questo improvviso colpo di follia, da questo inopportuno lavaggio di cervello si potevano immaginare. Non sapevo dire cosa mi stesse succedendo. Non avevo paragoni. Sapevo solo una cosa: gli studi fatti, le timide simpatie, la parentela grande a bella, i miei progetti, i talenti appena affiorati mi sembravano aver perso tutto il significato di cui li avevo caricati. Ora c’era davanti a me la possibilità di vivere. E io volevo vivere. Nonostante mi fossi iscritto all’università di Palermo, feci di tutto per andare a Loppiano. Sono lì da due mesi. Lidia aveva allentato le redini della sua tristezza; le sue profonde rughe sembravano rilassate. Da anni – ripeté – sono come questo cane: sorda. Niente e nessuno sa raggiungermi con le parole. Sono pianista. Avevo un futuro felice che negli anni si è assottigliato. Ora non c’è più nulla. Dio non è mai stato di casa da noi. Avevamo tutto. Dio non ci serviva. Dopo la morte tragica di mio figlio e la fuga di mio marito lo spazio attorno è diventato deserto e nessuna bestemmia, nessun urlo risuscita il passato. Nessuna lacrima fa fiorire l’arido deserto. Volle accertarsi se ero convinto della scelta fatta mentre si guardava le mani da pianista, le unghie con qualche residuo di smalto rosso e l’indice e il medio segnati fortemente dalla nicotina. Le è mai passato per la testa di mettere un punto alla vita?, mi chiese senza alzare gli occhi; e, senza attendere risposta: È l’unico pensiero che riesce a stimolarmi. Sarebbe l’unica azione ragionevole della mia libertà. Guardai il barboncino sordo vicino a un mucchio di spartiti per terra. Libri sul divano, sul pianoforte. Appesantiva l’aria un grosso posacenere che traboccava cicche. E cicche c’erano dentro bottiglie vuote per terra. Mi dica, di quali libri si vuole alleggerire?. Gliene consigliai uno di Chiara Lubich, ma lei me ne prese altri tre senza guardare i titoli e dalla tasca della vestaglia tirò fuori una manciata di soldi. Soltanto quando mi strinse la mano per salutarmi mi resi conto che il suo sguardo era secco, spento. Chiuse con delicatezza la porta alle mie spalle. Stavo scendendo la prima rampa di scala quando vidi salire un distinto signore. Ero già al piano inferiore quando sentii che stava battendo su una porta: Apri, Lidia, non fare sciocchezze!. L’elegante palazzo di Firenze che mi lasciavo alle spalle mi sembrò una tomba di lusso. Il traffico pesante non riuscì a togliermi la soffocante tristezza che mi pesava più dello zaino. Dopo qualche giorno telefonai alla signora Lidia. Rispose con una voce sorpresa e meno rauca: Come fa ricordarsi di me? Lei non può immaginare quello che ha fatto! Se quel giorno fosse arrivato qualche minuto più tardi, nessuno le avrebbe aperto la porta. Nessuno!.