La “Siccità” è dentro di noi
Roma è senz’acqua da tre anni, il Tevere all’asciutto appare nella sua realtà cruda: un immondezzaio, ma anche un logo dove si recupera l’antichità, la storia, in un bronzo che pare essere il celebre Colosso di Nerone. Al telegiornale si susseguono le notizie drammatiche sul clima e la mancanza d’acqua, si consultano esperti: lo sguardo di Paolo Virzì sul retroscena del mondo mediatico è lucido e implacabile nella sua precisione.
E poi c’è Roma, una Roma della grande bruttezza: è l’immagine, la parabola di un disagio universale. Il regista popola il racconto, che non ha soste che non abbiano significato, di personaggi-tipo: il tassista malato, cocainomane, deluso che “rivede” i genitori morti e addirittura un amico ex parlamentare costretto alle dimissioni. Una presenza amorale che è una frecciata puntuta del regista alla nostra classe politica. Ma il tassista (un ottimo Valerio Mastandrea), separato con una figlia clavicembalista dolcissima, innamorata di un ragazzo di colore – un immigrato, intervistato dalla televisione in un attimo, quasi una burla della superficialità mediatica –, è il ritratto di una malinconia invincibile che, grazie alla siccità, tormenta un po’ tutti. Separarsi in famiglia – il regista cita altre storie –, per cercare altri amori, non porta necessariamente alla felicità.
C’è poi l’attore frustrato e narciso con un figlio solitario che lo disprezza e si infiltra fra i delinquentelli di periferia, c’è il professore veneto (Diego Ribon) innamorato della moglie, ma che a Roma cede alle grazie di Valentina (Monica Bellucci, un “corpo parlante”), e poi il romano timido e furfantello con la moglie incinta che fa il bodyguard di una ricca figlia di un disonesto produttore di acque minerali, che si trova coinvolto in un omicidio…
E infine c’è lui, il carcerato per omicidio ma dal cuore ingenuo e tenero (un impagabile Silvio Orlando), che casualmente si trova fuori prigione, e disorientato vaga alla ricerca della figlia che non vede da anni: la trova, fa l’infermiera, è incinta e non lo perdona (scena di grande dolore e verità), per cui può solo lasciarle una preziosa tanica d’acqua e tornare in carcere, tanto ormai anche se uscisse “non saprebbe dove andare”. È un mondo di persone tutte piene di dolori più o meno esibiti, di smarrimenti, di affetti sbagliati e perduti, di ricerca di identità: la morte, la perdita, la paura, l’egoismo sono al cuore di un film corale, impietoso eppure attraversato da un disperato bisogno di amore vero, di pulizia dell’animo, prima del corpo.
Alla fine, molti si ritrovano a San Pietro intorno al papa in preghiera e qualcosa succede. Una speranza si apre. Sembrerebbe un film amarissimo – ed in certe sequenze lo è -, ma Virzì in questa Roma-mondo, piena di gente in cerca di redenzione che pare non trovare una via di uscita, un lumicino lo lascia accendere.
Il regista ha scelto un cast sterminato, ma omogeneo al racconto di “tipi umani” che ci rappresentano, addirittura c’è il direttore d’orchestra Sardelli con la sua musica barocca a Valle Giulia. Ma il film ha una sua compattezza, non è disordinato, anzi, è un mosaico della commedia umana attuale descritto con feroce delicatezza, con la poesia di una Roma non turistica, ma reale. È il nostro mondo, la nostra vita, sono le nostre paure e i nostri sogni. Il bisogno soprattutto di ritrovare l’anima, l’amore sotto una pioggia liberatrice che ci pulisca dentro e ci ridia la speranza. Forse si può rinascere. Da non perdere.
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