La sharia e il “problema” delle donne

Molti regimi islamisti, spesso basati su letture fondamentaliste in forte contrasto fra loro, alla fine convergono su alcuni, pochi principi: e fra questi pochi c’è sempre la pretesa di un controllo ossessivo sulle donne, in nome della sharia. È il caso dei mullah iraniani e dei talebani afghani, ma anche degli houti yemeniti e dei jihadisti dell’Isis, per non citare che i più tristemente famosi.
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Afghanistan, i talebani impongono alle donne il burqa in pubblico (Foto: LaPresse)

Quando si tratta di difendere quelli che a noi appaiono arbitrari maschilismi o pretese di potere, molti regimi islamisti (non uso volutamente i termini musulmani – islamici in questo contesto) fanno riferimento alla sharia, spacciata per “la legge islamica” tout-court. Da notare che il riferimento non è quasi mai al Corano in quanto tale, ma se va bene alla “Legge coranica”, vale a dire ad una lettura normativa che sarebbe “dedotta” dal Corano. Naturalmente la “deduzione” ha molto a che fare con le centinaia di scuole, gruppi, sette e con vari, e talora curiosi o tragici, orientamenti emersi nel corso dei circa 14 secoli di civiltà islamica; ma anche ad inculturazioni storiche molto legate a canoni tribali pre-islamici, inglobati più o meno consapevolmente in una certa visione giuridica o spirituale: gli islamisti non sono ciascuno l’unico Islam, come spesso pretendono escludendo ogni altra tradizione islamica.

Per fare un parallelismo decisamente fuori luogo sarebbe come dire che la vera legge evangelica è il codice di diritto canonico. Con tutto il rispetto per i canonisti, non è la stessa cosa. O come dire che l’unico cristianesimo è solo quello del mio gruppo, e tutti gli altri sono eretici e quindi dannati.

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Il supremo leader Ayatollah Ali Khamenei (Foto: LaPresse)

Un esempio, a mio avviso emblematico, di queste interpretazioni esclusive della sharia è quello famoso relativo alle donne in bicicletta. Si tratta della fatwa emanata dalla guida suprema iraniana Ali Khamenei nel settembre 2016, che suona pressapoco in questi termini: “le donne [in bicicletta] spesso attirano l’attenzione di estranei maschi ed espongono la società alla dissolutezza, contravvenendo così alla castità delle donne”. Quindi biciclette escluse per signore, ragazze e bambine, anche se infagottate e velate fino all’inverosimile: è il principio che conta. Interessante poi è l’evidente approccio maschilista: la dissolutezza sarebbe quella del maschio, ma la colpa ricade sulla donna che potrebbe indurla anche senza averne l’intenzione.

Facendo applicare nel 2019 questo “autorevole” pronunciamento, il procuratore iraniano Ali Isfahani ha aggiunto che la polizia (i famigerati basij responsabili del pestaggio e della morte di Mahsa Amini) avrebbe applicato la “punizione islamica” alle donne recidive di pedalata. A chi forse obiettava che difficilmente la sharia poteva prevedere fin dai tempi del Profeta il crimine della donna in bicicletta, il procuratore ha precisato che autorevoli “studiosi musulmani” hanno da tempo “dimostrato” che il pedalamento delle donne è “haram” (vietato dalla fede islamica). Se ne deduce che solo la pedalata dei maschi sarebbe “halal” (conforme alla fede islamica).

Per carità, non intendo fare lo scandalizzato o il polemico, in fondo discriminazioni di questo tipo non sono estranee alla nostra cultura europea e occidentale (più o meno radicata nel cristianesimo, ma questa è un’altra questione). Mi viene in mente, tanto per dirne una, la passione per la bicicletta di Marie Sklodowska, più nota come madame Curie, e la sua esclusione dal pronunciare un discorso a Stoccolma, perché donna, in occasione del primo Premio Nobel per la Fisica ricevuto insieme al marito, Pierre Curie, nel 1903. Se non altro, 8 anni dopo, nel 1911, quando ricevette da sola il secondo Nobel, quello per la Chimica, le concessero la facoltà di esprimersi.

Per quanto riguarda i talebani afghani, che non sono affatto sciiti e anzi vedono il regime iraniano come fumo negli occhi, la loro ossessione per la censura delle donne è drammaticamente proverbiale. Oltre al burqa, al divieto di usare cosmetici, gioielli e scarpe con i tacchi, impediscono alle ragazze di studiare e di lavorare, persino di ridere. Sempre in nome della sharia, naturalmente. Ma di una sharia (proclamata come quella originale risalente al Profeta) che oltre ad una interpretazione coranica deobandi, anti-indù e anti-stranieri, nel tempo ha inglobato anche il pre-islamico canone pashtun.

Tasnim Butt, pakistana, assistente alla Facoltà di Scienze Sociali e Politiche della Libera Università di Bruxelles, afferma: «La lettura della religione che fanno i talebani è così severa perché è legata anche alla cultura pashtun. Per i talebani le donne non hanno diritto all’eredità e non hanno bisogno di studiare. Ma questo non deriva dall’Islam, secondo cui le donne possono ereditare il 50% dei beni di famiglia, deriva dal loro essere pashtun».

Insomma, il “problema” del controllo delle donne nei regimi islamisti riguarda sì, la sharia, ma dipende a quale sharia e a quale lettura del Corano si intende fare riferimento. E una pluralità intesa come ricchezza non è ammessa dagli islamisti. E non solo da loro.

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