La sfida politica dell’economia civile

Intervista a Pierluigi Porta, docente dell’università Bicocca di Milano, sulla necessità di cambiare rotta per evitare il disastro dell’euro e non solo
Banca centrale europea - Francoforte

Se la riscoperta del filone fecondo dell’economia civile è la risposta a un sistema che sta implodendo, merita grande attenzione la tre giorni che interesserà la città di Roma dal 4 al 6 giugno prossimi. Lunedì 4 e martedì 5 sono previste due intense sessioni di lavoro in lingua inglese presso l’università Lumsa su economia e felicità declinata sui più diversi contesti, per finire, il 6 giugno, con un’intera giornata, presso l’Istituto Sturzo, dedicata alla riscoperta del pensiero di Antonio Genovesi a trecento anni dalla nascita. Questa figura di economista umanista nella capitale del regno di Napoli nel primo Settecento, titolare della prima cattedra di economia della storia, rivela aspetti di viva attualità, come testimonia la presenza annunciata del neo ministro del Lavoro, Enrico Giovannini, che, da presidente dell’Istat, è stato tra i promotori dell’adozione di un parametro di valutazione dell’economia di un Paese che potesse essere integrare il Pil: l’indice di benessere equo e sostenibile (Bes).

Concetti e prospettive di approfondimento che producono riflessi immediati nelle scelte di politica economica. Proprio di “Ragioni per una politica dal volto umano” tratterà nel pomeriggio del 6 giugno (assieme a Magatti, Zamagni e Bruni), l’intervento di Pierluigi Porta, professore ordinario della cattedra di Economia politica nella facoltà di Economia dell’università degli studi di Milano Bicocca. Cerchiamo di avvicinarci al tema, che si presta a un dibattito aperto e sempre più necessario, rivolgendo alcune domande allo studioso da sempre attento a una dimensione sociale del sapere economico.

Il 6 giugno parlerà del messaggio attuale di Genovesi nei confronti della politica italiana. Quali misure sarebbero coerenti oggi con la visione del padre dell’economia civile?
«Pur riconoscendo pienamente i meriti e il coraggio del gabinetto Monti, direi che vanno tolti da incarichi diretti di governo economisti “puri” che tendono a isolare e concentrare l'attenzione in modo troppo esclusivo. Sull’aspetto economico dei problemi occorrono provvedimenti ispirati a sensibilità sociale, mobilitazione delle risorse della società civile. Certo è impossibile dire se l'Imu sia un'imposta "genovesiana" oppure no. Non arriverei a questo dettaglio. La politica industriale e il welfare dovrebbero essere le chiavi di volta di una strategia volta a valorizzare il mercato all'interno di una logica di mobilitazione sociale più ampia».

Quali spazi reali possono avere i politici italiani con i vincoli definiti dall’Ue e dentro il meccanismo della globalizzazione liberista?
«Sono d'accordo con quanto ha sostenuto recentemente Amartya Sen in una pagina interna del Corriere della Sera: occorre che il nostro governo si impegni in una ridefinizione degli impegni europei entro un percorso che miri all’unità politica. A mio modestissimo avviso, il primo passo necessario è quello culturale. Un cittadino europeo deve conoscere almeno tre lingue oltre la propria. Non è un obiettivo irrealizzabile: la scienza dell’educazione ci dice che le risorse intellettuali dei fanciulli sono oggi largamente sottoutilizzate. D'altra parte noi abbiamo a portata di mano l'esempio della Svizzera dove qualcosa del genere avviene. Se ci riescono gli svizzeri perché non deve essere possibile per noi? Questo creerebbe il senso concreto della polis europea. Senza questo passaggio, la moneta europea è destinata a passare alla storia come uno dei maggiori disastri economici che abbiano colpito l'umanità. Dal meccanismo della globalizzazione selvaggia ci si difende anzitutto creando condizioni più civili nel funzionamento dei sistemi finanziari».

Dove si possono individuare i segni di un agire economico coerente con un’impostazione non viziata dall’inadeguato orizzonte dell’individualismo competitivo?
«Non ne vedo molti al momento e non solo per quanto concerne l'economia. Siamo una società vittima di uno sfrenato individualismo che contribuisce a radicare una visione edonistica esasperata, che si alimenta e giustifica all'ombra di pretese di eguaglianza e di libertà. Bisogna trovare il modo di passare a una fraternità non familistica».

Si può arrivare a proporre oggi una reale democrazia economica? Come rendere accessibili i fondamenti di una conoscenza che resta riservata a pochi?
«La risposta dipende da che cosa si intende per democrazia economica. Se si vuole che le aziende siano rette dai dipendenti, le scuole dagli studenti, ecc., questo mi pare il contrario di una democrazia economica. Mi pare piuttosto anarchia tipica di una società che fatica a riconoscere professionalità e distinzioni di grado o gerarchiche (perdoni il termine in disuso). Se invece si intende la diffusione della cultura economica, è un lavoro tutto da cominciare, che coincide con la formazione del cittadino, da non confondere con quella specie di istruzione tecnica, alla quale si riduce il più delle volte lo studio dell’economia».

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