La sfida politica della nonviolenza attiva
Una strana sensazione ha vissuto chi ha partecipato lo scorso 30 settembre all’inaugurazione dell’Istituto cattolico per la nonviolenza promosso da Pax Christi international. Un incontro rigorosamente in lingua inglese, con presenze prevalentemente non italiane, che si è tenuto in un istituto collocato a pochi metri dal cosiddetto braccio di Carlo Magno del colonnato di piazza San Pietro mentre le agenzie di stampa non smettevano di riportare le notizie sull’incessante azione bellica dell’esercito israeliano nella Striscia di Gaza e l’allargamento del fronte verso il Libano fino a colpire e uccidere il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, che in molti consideravano imprendibile.
Lo scenario di morte che è emerso in maniera cosciente nell’opinione pubblica a partire dal 24 febbraio 2022, invasione russa dell’Ucraina, ha raggiunto picchi impensabili dopo l’attacco terrorista perpetrato il 7 ottobre 2023 da Hamas oltre la frontiera ipercontrollata dell’enclave palestinese e la durissima vendetta decisa dal governo israeliano guidato da Netanyahu.
Anche chi ha, da subito, riconosciuto l’operazione bellica di Israele come esercizio del diritto di difesa, è rimasto senza parole dalle dimensioni dell’intervento che ha finito inevitabilmente per colpire la popolazione civile palestinese che risiede in un’area tra le più densamente popolate al mondo sotto il governo dell’organizzazione politico militare di Hamas. I dati del ministero della Sanità di Gaza sono confermati anche da altre fonti indipendenti che stimano un bilancio molto più pesante delle oltre 40 mila vittime rimaste sotto le macerie, tra le quali il 17 ottobre anche il leader islamista Yahya Sinwar, considerato, come capo militare e poi politico, la mente dell’eccidio del 7 ottobre.
L’intelligence israeliana, che possiede i dati biometrici di buona parte dei miliziani palestinesi, passati quasi tutti per le carceri di Tel Aviv, opera tramite armi letali autonome programmate per centrare l’obiettivo nemico al costo di colpire un numero crescente di vittime collaterali con armi finanziate in gran parte o provenienti direttamente dagli Usa.
Come dovrebbe essere noto, proprio negli States, accanto ai grandi sostenitori soprattutto di Netanyahu, sono numerosi e attivi i gruppi di ebrei che contestano la linea del governo di destra fino a chiedere lo stop all’invio di armi verso Tel Aviv, così come fa Berni Sanders, anch’egli di famiglia ebraica, riferimento della sinistra dei democratici.
Non stupisce perciò che siano state proprio esperte e studiose di Pax Christi negli Usa ad essere le più convinte nel sostenere le ragioni dell’istituzione di un centro studi internazionale a Roma che ha, con la benedizione di papa Francesco, un obiettivo di lungo termine e cioè il progressivo orientamento della Chiesa verso la priorità della scelta della nonviolenza attiva.
Una tesi che cozza contro il permanere del criterio della guerra giusta all’interno dei documenti ufficiali della Chiesa (dal catechismo al Concilio Vaticano II) e soprattutto nel pensiero e nella cultura di gran parte dei credenti, abituati da millenni a rispettare il criterio prevalente dell’obbedienza dovuta all’autorità legittima come fonte della giustificazione della guerra che ovviamente non viene mai sostenuta per motivi di aggressione ma sempre di difesa. Comunque, anche quando non sono stati rispettati i criteri teorici della giustificazione della guerra, come nel caso del conflitto in Iraq del 2003, non è arrivata la decisione unanime a praticare l’obiezione di coscienza che è stata lasciata, come sempre, alla scelta al singolo.
A dire il vero alcuni segnali di novità sono già emersi all’inaugurazione del 30 settembre a cui è intervenuto il cardinale statunitense Robert Walter McElroy, vescovo di San Diego in California, per affermare che «nella vita della Chiesa le teorie della guerra giusta sono un elemento secondario nell’insegnamento cattolico; il primo è che non dovremmo affatto impegnarci nella guerra» riconoscendo che il ricorso alla teoria classica codificata da sant’Agostino è stata usata troppo spesso per giustificare ogni tipo di guerra.
È quanto ha affermato papa Francesco nella enciclica Fratelli tutti del 3 ottobre del 2020 in cui afferma che «facilmente si opta per la guerra avanzando ogni tipo di scuse apparentemente umanitarie, difensive o preventive, ricorrendo anche alla manipolazione dell’informazione. Di fatto, negli ultimi decenni tutte le guerre hanno preteso di avere una “giustificazione”. Il Catechismo della Chiesa Cattolica parla della possibilità di una legittima difesa mediante la forza militare, con il presupposto di dimostrare che vi siano alcune “rigorose condizioni di legittimità morale”. A partire da uno sguardo sulla potenza autodistruttiva delle armi moderne il papa giunge ad affermare che «oggi è molto difficile sostenere i criteri razionali maturati in altri secoli per parlare di una possibile “guerra giusta”. Mai più la guerra!».
Una traccia decisiva per il nuovo Istituto che nel consiglio di consulenza prevede la presenza, assieme a molti altri autorevoli studiosi, di Erica Chenoweth, professoressa dell’Università di Harvard negli Usa, considerata un’autorità in materia della nonviolenza strategica.
Punto di forza dell’Istituto è poi Maria Stephan, politologa statunitense, direttrice del programma sull’azione nonviolenta presso l’Istituto per la Pace degli Stati Uniti e coautrice di un’importante ricerca pubblicata nel 2010 con il titolo “Perché la resistenza civile funziona: la logica strategica del conflitto nonviolento” in cui si esaminano, dal 1900 al 2006, i casi di successo della resistenza nonviolenta nel cambio di regime politico. Un progetto di ricerca che continua e troverà nuovo slancio con l’iniziativa di Pax Christi.
All’inaugurazione dell’Istituto è intervenuto anche il cardinale Charles Maung Bo, che è arcivescovo di Yangon nel Myanmar. Secondo il presule che proviene da una nazione attraversata dalla violenza estrema della dittatura militare e dalla reazione di gruppi organizzati dell’opposizione, «il rifiuto della violenza da parte di Gesù non rappresenta uno stato di debolezza perché ha proclamato che l’amore è più forte dell’odio, che la pace dura più a lungo della guerra e che la giustizia, se costruita sulle fondamenta della nonviolenza, è incrollabile. Come ci ha detto nelle Beatitudini, “beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio”». Come ha evidenziato suor Teresia Wachira, dell’Istituto della Beata Vergine Maria, tra le relatrici dell’incontro, la base della nonviolenza è «l’accoglienza verso tutti, anche il nemico».
Il 25 ottobre si terrà l’ultimo di 4 seminari sulla nonviolenza attiva proposti dall’Istituto di Pax Christi durante il Sinodo, mentre al termine dell’incontro del 30 settembre sono stati premiati i rappresentanti del Parent circle, l’organizzazione composta da familiari di vittime palestinesi e israeliane che hanno deciso di abbandonare ogni logica di vendetta a favore di processi di riconciliazione, indispensabili per cercare di arrivare ad una pace reale.
Una testimonianza, dunque, sconvolgente, che tocca le viscere, ma che indica una soluzione non solo personale ma politica.
Ed è proprio questa la seria sfida aperta e sempre più urgente in un contesto dove il richiamo al realismo politico tende a porre la nonviolenza nella sfera della profezia slegata dalla storia, cioè dalla vita delle persone in carne e ossa poste davanti a scelte laceranti.
Lo dimostra il viaggio che stanno compiendo in diverse città italiane alcuni esponenti di associazioni palestinesi e israeliane per dare ragione della loro obiezione di coscienza nel conflitto in corso. L’iniziativa promossa dal Movimento nonviolento, la storica realtà italiana fondata da Aldo Capitini e presieduta da Mao Valpiana, che ha apertamente proposto a tutti, davanti all’aggravamento dei conflitti in corso, di firmare e rendere nota una dichiarazione preventiva di rifiuto dell’uso delle armi e di strumenti violenti. Per tale ragione il Movimento nonviolento propone di sostenere i disertori di tutte le guerre in atto, cioè vale a dire russi, ucraini, israeliani, palestinesi, ecc.
Davanti al «buio totale» della situazione attuale secondo il Movimento nonviolento, «l’unica fiammella di speranza è data dai gruppi misti, israelo-palestinesi, che cercano una via di dialogo e riconciliazione. Gli obiettori israeliani e i pacifisti palestinesi, uniti contro l’occupazione, il militarismo e il terrorismo, sono la nostra speranza».
A girare per l’Italia sono i rappresentanti di Mesarvot, una rete di giovani attivisti israeliani che rifiutano di prestare il servizio militare obbligatorio, e di Community Peacemaker Teams – Palestina (CPT) che sostiene la resistenza di base nonviolenta guidata dai palestinesi contro l’occupazione israeliana.
«La spirale che ci sta portando al terzo conflitto mondiale – affermano gli esponenti del Movimento nonviolento – può essere spezzata: l’obiezione alla guerra è il primo passo. Per questo chiediamo alle istituzioni, all’Unione Europea, al nostro governo, di riconoscere lo status di rifugiati politici a tutti gli obiettori di coscienza, disertori, renitenti alla leva, che fuggono dalle guerre e chiedono asilo e protezione».
Una proposta che richiede una politica di nonviolenza attiva molto lontana dalle elaborazioni di centri studi e istituti di diverso orientamento culturale che sostengono la priorità del riarmo votata con larga maggioranza in Parlamento. Ma anche condivisa verosimilmente, al di là delle citazioni di papa Francesco, in larga parte, all’interno delle comunità ecclesiali a cui si rivolge in prima battuta l’Istituto promosso da Pax Christi che è chiamato, perciò, ad una sfida difficile destinata a non restare confinata in ambito accademico.
Sostieni l’informazione libera di Città Nuova! Come? Scopri le nostre riviste, i corsi di formazione agile e i nostri progetti. Insieme possiamo fare la differenza! Per informazioni: rete@cittanuova.it